In questi giorni in cui si stilano i propositi di un anno nuovo, vorrei rimettere al centro dell’attenzione il nostro rapporto con l’Africa. È un tema carsico, affiora per emergenze varie, soprattutto legate ai flussi migratori che scatenano slanci opposti — dall’«aiutiamoli» al «respingiamoli» —, ma poi scompare sepolto da altra attualità, per tornare ad essere materia di pochi tecnici.
In queste fasi alterne, abbiamo letto idee di nuovi piani Marshall e piani Mattei per l’Africa, accompagnate da richieste di nuovi fondi: tutte proposte interessanti perché alimentano la riflessione su come impostare una relazione nuova tra noi e i Paesi africani, a cui siamo più vicini e più legati di quanto percepiamo. E costringono a mettere a fuoco quanto sono rischiose e fuorvianti le visioni di un’Africa come un tutto omogeneo che avrebbe bisogno di salvatori dal Nord del pianeta.
Mentre l’Africa che conosciamo noi, grazie all’esperienza concreta di centinaia di progetti di sviluppo in collaborazione con decine di organizzazioni della società civile locale e istituzioni, ha il volto di tanti Paesi diversi, che chiedono partner affidabili e presenti — non salvatori tantomeno nuovi coloni — capaci di soluzioni innovative. Fondi importanti per l’Africa sono già disponibili o promessi (la Ue con la strategia Global Gateway ha destinato 150 miliardi di euro, Biden ha promesso 55 miliardi di dollari), ma bisogna renderli accessibili ai soggetti più capaci di spenderli bene, protagonisti di quel dinamismo della realtà africana che ha molto da insegnare e condividere.
Solo qualche cenno: le imprese innovative crescono esponenzialmente e attraggono quantità sempre maggiori di investimenti arrivati nel 2021 a 5 miliardi di dollari; se sei anni fa l’Africa non aveva un solo «unicorno», oggi conta circa 7 startup che superano il miliardo di dollari di valore; ci sono più di 150 fondi di investimento attivi nel continente e un ecosistema di oltre 600 incubatori che cresce di anno in anno.
Certo questo fermento ha bisogno di infrastrutture fisiche e istituzionali, e servizi in parte non ancora esistenti, ed è a questo livello che si può interagire. Ma insieme, alla pari: gli africani sono forse i meglio posizionati per individuare percorsi di uno sviluppo sostenibile con chi in Europa e in Asia (e noi preferiremmo fosse l’Europa) dimostra di avere le competenze migliori.
L’Africa si è dimostrata paradossalmente più capace di reagire a recenti shock economici globali rispetto ad altre aree del mondo. L’area subsahariana ha sofferto l’impatto del Covid, ma nel 2023 crescerà al ritmo del 3,8%. Entro il 2030 si calcola che la spesa combinata di consumatori e imprese toccherà i 6,7 trilioni di dollari trainata dalla crescita di una classe media e dal processo di integrazione dell’African Continental Free Trade Area. Il continente più giovane del mondo è destinato ad arrivare a 2,3 miliardi di persone in 30 anni, con un tasso di crescita demografica del 2,7% all’anno, contro l’1,2% dell’Asia e lo 0,9% dell’America Latina. L’aspettativa di vita prevista è in continuo aumento, dai 61 anni di oggi ai 68 del 2040, entro il 2050 più di un quarto dell’umanità sarà africana e la crescita demografica provocherà l’aumento della domanda di servizi pubblici e di infrastrutture.
Sono trend questi che non nascondono né cancellano la fame, la povertà, i conflitti in corso, il terrorismo, i regimi antidemocratici, il mancato accesso a un’educazione di qualità che ancora colpiscono troppe persone nei Paesi africani, e sono la ragione per cui sono presenti sul terreno tante organizzazioni di cooperazione allo sviluppo. Ma se occorre misurare i bisogni e le diseguaglianze, altrettanto occorre aprire gli occhi su tutti i processi che tendono a restare in ombra.
Sulla conoscenza integrale di questi fattori si può fondare un rapporto nuovo e fruttuoso tra noi e l’Africa, secondo un approccio multistakeholder, che chiami in campo tutti i soggetti investiti dalla sfida dello sviluppo: c’è questo ampio spazio per sperimentare e innovare, si pensi all’ambito dell’economia sociale e sostenibile, ed è quello che auspicheremmo per tutti i piani nuovi che si volessero avviare nel nuovo anno.
Le organizzazioni della società civile che fanno cooperazione allo sviluppo — e che ci si ostina a chiamare genericamente «ong», trasformandole così in un coacervo indistinto che viene spinto o nel recinto dei buoni o nell’angolo dei cattivi — possono e vogliono portare il loro contributo.