Qualche giorno fa a Khiam, un villaggio nel Sud del Libano, Hussein, 15 anni, e suo papà, mentre andavano a dare da bere agli animali nella stalla, sono stati uccisi da un missile.
Hussein dal 2017 era sostenuto a distanza da Monica e dalla sua famiglia di Rho, in Lombardia. Per nove anni tra di loro si era creato, lentamente, tramite una corrispondenza semplice, un nesso forte di amicizia, una consuetudine che mentre aiutava Hussein ad andare a scuola, permetteva alla famiglia di Monica di conoscere la realtà del mondo fuori, di capire cosa sia la guerra.
In una delle sue ultime lettere, Hussein scriveva: “È vero che la situazione non è affatto tranquilla ma stiamo bene grazie a Dio. Proseguo i miei studi, grazie per l’interesse che dimostri per me. Spero che questo brutto periodo finisca presto”.
Ora la tentazione che ci minaccia è quella di credere che sotto le macerie, con Hussein e suo padre, sia rimasta anche quella speranza che animava Hussein.
Ma Monica, suo marito e i suoi figli dicono no, non vogliono fermarsi: aiuteranno la mamma e i tre fratelli di Hussein a ripartire mossi dalla volontà di continuare ad aiutare insieme a noi i 1.300 bambini e le famiglie del sostegno a distanza in Libano.
Da qui, da un contesto di guerra che ci vuol far credere che tutto è distrutto, ti chiedo di unirti a Monica nella volontà di non smettere di aiutarci. Mai.

Cosa sta succedendo in Libano
Come ho recentemente raccontato in un'intervista per Sussidiario.it dopo un anno di guerra nel sud e un mese in tutto il Libano, la gente non ne può davvero più. Una stanchezza che si manifesta in tanti modi. Ciò che mi preoccupa particolarmente, però, è il rischio di un conflitto interno, che venga minata la stessa ragion d’essere del Libano, un mosaico di differenze nel quale vivono insieme sciiti, sunniti, drusi, cristiani, palestinesi, siriani. Israele, oltre a bombardare tutte le sere, buttando giù case e palazzi e facendo vittime innocenti, cerca di colpire i capi di Hezbollah che sono sfollati. E quando ti trovi come vicino di casa uno sconosciuto che ha trovato rifugio, è normale avere paura. Una paura che può allargarsi e aprire la strada a un conflitto interconfessionale.
Il nostro è aiuto umanitario puro: lavoriamo nei luoghi in cui le persone hanno trovato riparo, 114 scuole, 3 università, 125 rifugi. Ci occupiamo anche di chi ha trovato un appartamento in cui stare, ma non ha i soldi per il cibo, non ha materassi.
I bambini sono spaventati: una delle nostre attività più importanti è proprio quella di impedire loro di diventare vecchi troppo presto. Li facciamo giocare, disegnare, danzare, anche per permettere loro di esprimere il trauma, in modo da aiutarli a superarlo. Vogliamo che si stacchino per un momento da questo purgatorio vivente. Vivono con persone che non conoscono, in scuole dove si dorme tutti insieme, senza spazi privati o un angolo per leggere un libro, dove vedono i loro genitori tristi e sofferenti. Farli giocare è indispensabile: a 5-6-7 anni hanno lasciato la loro casa verso una destinazione sconosciuta. Per questo il nostro lavoro non è solo scaricare camion, ma accompagnare, condividere, cercare dei momenti di serenità, perché la guerra ha spazzato via tutto. Aiutiamo 13mila persone, ma non ci preoccupiamo solo di fornire acqua, cibo, medicine, soldi.
La maggior parte vive nelle scuole, che quindi non funzionano più. Centinaia di migliaia di bambini non frequentano le lezioni perché gli istituti sono diventati dormitori. Alcuni sfollati vivono in altri edifici pubblici, i più fortunati in case, appartamentini, anche se di solito sono occupati da 20-30 persone. Chi non ha trovato altro vive per strada: ci sono chilometri di marciapiedi pieni di tende, con l’auto parcheggiata di fianco che fa da ripostiglio, una tenda come stanza da letto e la sala da pranzo sotto il cielo. Adesso ci sono 20 gradi, ma anche qui sta arrivando l’inverno, con il freddo e la pioggia. Per migliaia di persone sarà un grossissimo problema: lo è già oggi vivere senza acqua potabile e servizi igienici.
Le piccole suore di Ivrea (le suore di Carità dell’Immacolata Concezione) lavorano sulla collina a nord di Beirut, hanno 40-50 famiglie alloggiate nei villaggi intorno al convento, cui portiamo aiuti materiali e che sosteniamo con il centro di ascolto psicologico e svolgendo attività per i loro bambini. Le zone in cui agiamo sono quelle dove la gente è scappata: Beirut, Monte Libano e una parte della Bekaa. Ma lavoriamo anche nelle zone di guerra: nel sud, a Marjayoun, ci sono 500 famiglie (quindi 2-3mila persone) che hanno deciso di non abbandonare il loro villaggio, nonostante i bombardamenti: due ragazze di AVSI sono rimaste con loro. Siamo a 5 chilometri dal confine con Israele. Lì abbiamo inviato aiuti scortati dall’esercito libanese.