L’aereo comincia la discesa verso Beirut, si intravedono le luci della città ed una fila ininterrotta di grattacieli sul lungomare. Mi affretto a finire l’ultimo libro del mio scrittore libanese preferito, sperando che mi dia qualche elemento per capire la storia complessa di questo paese. Non sono mai stata in Libano, uno degli scali del levante, mondi di coesistenza di popolazioni, culture, religioni che la storia aveva modellato prima di demolirli.
In Libano si svolgerà il meeting annuale di AVSI del Medio Oriente che raccoglierà in tre giornate di discussione il personale di Libano, Giordania, Siria e Iraq. Non devo fare nessuna presentazione sul mio lavoro a Bruxelles, così decido di spogliarmi del mio ruolo e mi predispongo a confondermi in mezzo agli altri.
La visita ai progetti
Nella mattina del primo giorno è prevista la visita nel sud del paese ad alcuni progetti, fra i più significativi non solo nell’area geografica ma di tutte le attività di AVSI. Percorriamo in bus la strada che costeggia il mare e che ci porterà fino al confine con Israele. L’apparizione del castello di Sidone mi porta sei millenni indietro nel tempo, luogo troppo mitico per appartenere al tempo reale.
La prima tappa è al vivaio del progetto “Avocado”, che fornisce fiori a tutto il paese. Il progetto, in collaborazione col settore privato, ha come obiettivo la formazione professionale dei giovani per l’inserimento nel mercato del lavoro. E’ un tipo di progetto ricorrente nell’esperienza di AVSI, le cui collaborazioni col settore for profit sono iniziate molto tempo prima che venissero sancite dai nuovi obiettivi dello sviluppo sostenibile e dal consenso europeo per lo sviluppo.
Il secondo appuntamento è per me il più atteso, la visita che considero quasi un incontro personale ad uno dei 19 centri del progetto “Back to the Future”, che prevede l’inserimento sociale e scolastico di circa 27 mila bambini siriani rifugiati. Questo progetto, pur a più di 4,000 km di distanza, in qualche modo l’ho visto nascere proprio in quella sessione informativa del 2014 a Bruxelles, in cui l’Unione europea lanciò il Fondo Fiduciario Madad per far fronte alla crisi siriana. I fondi fiduciari sono considerati dall’UE strumenti flessibili che consentono risposte rapide a eventi imprevisti, eppure dall’istituzione del fondo all’inizio del progetto sono passati più di tre anni, fatto che dovrebbe far riflettere sull’efficacia di questi strumenti. Le mie riflessioni svaniscono all’arrivo al centro, le maestre ci conducono a visitare le varie classi dove bambini di scuola elementare svolgono le loro lezioni. Probabilmente vi è un pensiero comune nella mente di noi visitatori: questi bambini per i quali la vita da rifugiati è la sola realtà che conoscano. Sono per me inevitabili le associazioni con altre scuole costruite e gestite da AVSI in altri luoghi, in aree marginali e in paesi che hanno sofferto guerre civili: la scuola elementare a Kissy, quartiere di Freetown occupato dalla guerriglia durante la guerra civile, e la scuola Luigi Giussani nella periferia di Kampala.
Qui come in quei luoghi colpisce la bellezza, anche nel cuore dei luoghi più devastati AVSI fornisce ai bambini un riparo sicuro, un luogo piacevole dove trascorrere il tempo dedicato alla scuola. Entriamo nelle classi, i bambini sono davanti a noi, qualcuno un po’ vergognoso, qualcun’altro più curioso. Sono grata per questo incontro, i bambini hanno smesso di essere numeri e statistiche come nelle riunioni a Bruxelles, sono davanti a me seduti nei banchi della loro scuola dove forse hanno trovato un porto sicuro dopo tante privazioni e sofferenze.
Nemmeno la pausa pranzo ci solleva dalle emozioni. Il nostro ristorante è proprio di fronte alle alture del Golan, ai confini di Libano, Siria, Giordania e Israele, che degradano nella valle libanese della Bekaa dove la coesistenza fra drusi, maroniti e sciiti è stata ridotta in frantumi dalla guerra civile (1975-90). Durante il pranzo Rony Rameh, staff storico di AVSI Libano, in un racconto minuzioso ci spiega come la guerra abbia segnato la sua vita. Mentre il racconto procede tutte le mie certezze sugli eventi storici, sui buoni e cattivi si infrangono ad una ad una. Mi rendo conto che la mia ossessione di capire questa volta mi ha portato in un vicolo cieco. Dalla terrazza prospiciente la valle è permesso fare foto, alcuni turisti si ritraggono insieme ai caschi blu indonesiani. Dal 1978 la zona, che non ha mai smesso di essere teatro di scontri sanguinosi, si trova sotto l’egida dell’ONU che dovrebbe creare una fascia di sicurezza per le popolazioni civili.
Il bus si dirige all’estremo sud, proprio al confine con Israele. Un muro cosparso di telecamere separa i due Paesi, ci raccomandano di non fotografare. Il muro è ricoperto di dipinti e gigantografie di morti. Sotto ogni foto vi è un nome e delle scritte in arabo, per la maggior parte sono giovani miliziani, per alcuni martiri, per altri terroristi, forse solo ragazzi vittime della guerra.
L'incontro con i profughi siriani
E’ quasi l’imbrunire quando arriviamo all’ultima destinazione, un piccolo campo di profughi siriani. Il campo è a ridosso del confine ed è separato da Israele da un semplice filo spinato che segna una divisione quasi virtuale. Il contrasto fra le due zone è stridente. Le baracche dei profughi sono costruite secondo uno schema irregolare con materiali di fortuna, perlopiù cartoni colorati, mentre i kibbutz israeliani seguono una ordinata tipologia di insediamento che attesta un vero e proprio stile di vita.
I volontari di AVSI, giovani evidentemente motivati e pieni di energie ci spiegano che il campo riceve assistenza dall’UNHCR solo sporadicamente. Questi profughi non sono registrati e non esistono per il governo libanese, esistono però per AVSI che li assiste grazie ai fondi della cooperazione decentrata spagnola e soprattutto alla dedizione del suo personale.
Ci mostrano anche una parte del campo che ha recentemente preso fuoco per una disattenzione di un profugo e che è in fase di ricostruzione. E’ l’imbrunire e le donne siedono in circolo con i bambini che ronzano loro intorno. In una capanna separata gli uomini hanno preparato per noi del tè. Accetto volentieri e rimpiango di non aver imparato rudimenti di arabo nella mia permanenza di quasi due anni a Gerusalemme, riesco solo a ringraziarli nella loro lingua, ma so che hanno apprezzato il fatto che abbiamo accettato l’unica cosa che erano in grado di offrirci. Con noi c’è Asmaa, lavoratrice sociale di AVSI a Damasco che siede con le profughe siriane. In volto le si legge un’amarezza particolare, anche lei come quelle donne, è siriana e madre di bambini. Con Asmaa lavoreremo nello stesso gruppo nei giorni seguenti ed avrò modo di parlare a lungo. La nostra visita volge alla fine, in autobus regna il silenzio, non si sa se dovuto a stanchezza o mestizia. Il filo spinato, il muro con le foto dei giovani ripassano velocemente davanti ai nostri occhi, quindi il bus imbocca la strada che costeggia la costa fino Beirut.
La sera a cena sono al tavolo con Asmaa. Vorrei farle tante domande sulla Siria, sulla guerra ma un certo pudore mi frena, mi sembra sconveniente fare conversazione su un evento così tragico. E’ Asmaa che spontaneamente mi racconta. Intanto mi dice delle famiglie siriane che abbiamo incontrato al campo. Appartengono a fasce povere e discriminate della società siriana e per loro sarebbe difficile qualsiasi ipotesi di ritorno in patria, anche dopo la guerra. Il loro sembra un futuro tragico da profughi apolidi che non possono ritornare in patria né integrarsi in un nuovo paese. Poi mi racconta della sua vita e del lavoro con AVSI a Damasco. Mi dice che è sposata ed ha due bambine. Non posso fare a meno di chiederle se non ha paura per l’incolumità sua e della sua famiglia. Quasi per rassicurarmi mi spiega che loro vivono in una zona sicura di Damasco ed ogni mattina, prima di recarsi al lavoro, valuta se e dove andare, se ci sono rischi in alcune aree evita di recarvisi. La risposta sembra illogica, come possono esserci luoghi sicuri a Damasco e come si fa a valutare l’emergere di rischi improvvisi in una città che viene ripetutamente bombardata?
Chi ha vissuto in paesi in guerra, sa che ciò che dice Asmaa ha un fondamento di verità: anche le guerre, nella loro assoluta insensatezza, hanno una geografia precisa e una logica dei luoghi che solo chi ci vive impara a conoscere.
L'Annual Meeting: la condivisione delle nuove linee guida di AVSI
Il meeting si apre il giorno dopo con le presentazioni generali, mi confondo in mezzo ai circa 200 partecipanti, lo staff del Libano al completo e le rappresentanze degli altri paesi della regione, eccetto l’Iraq, in collegamento Skype. Obiettivo principale del meeting (e di tutti gli altri organizzati nelle varie regioni) è di discutere ed integrare le nuove linee guida, definite all’inizio del 2018 che dovranno guidare il lavoro di AVSI per i prossimi 5 anni. La struttura del meeting predispone al lavoro. Sono stati individuati alcuni temi cruciali che verranno approfonditi nei gruppi, nessuno dei quali è direttamente connesso agli affari europei, quindi scelgo quello che mi è più congeniale: “Come capitalizzare l’organizzazione di AVSI MENA e non reinventare la ruota”. Il tema è stimolante ed ho risposto per iscritto ai quesiti che il coordinatore ha inviato in preparazione. I partecipanti del gruppo provengono da tutti i Paesi della regione, io sono l’unica a non lavorare sul campo. Mentre la discussione si fa più intensa, i miei punti fermi sulle metodologie necessarie per la capitalizzazione delle conoscenze vacillano. Le esigenze provenienti dal campo sono così complesse e diversificate che non è possibile ingabbiarle in risposte e procedure standardizzate. Nella discussione del gruppo le questioni più tecniche si intrecciano ai racconti delle esperienze personali. Lo staff del progetto “Ospedali aperti” ci parla delle difficoltà quotidiane a cui l’ospedale deve fare fronte: carenza di medici e personale specializzato, sovraffollamento di pazienti per la chiusura di tutti gli ospedali pubblici, risorse limitate che costringono a decidere quali pazienti supportare, fra quelli che necessitano di cure di lungo periodo.
Arriviamo all’ultimo giorno in cui tutti i gruppi restituiscono il lavoro in plenaria. Ancora una volta una sorpresa fuori programma: uno dei direttori generali della SARC (Syrian Arab Red Crescent) farà un intervento al meeting. Con la SARC AVSI ha siglato un protocollo d’intesa nel 2015. L’attenzione in sala è massima, vengono presentati dati e dettagli delle operazioni umanitarie in questi anni di guerra. Il messaggio più significativo, attestato dalla presenza della SARC al meeting, è che AVSI è un partner importante per la sua affidabilità.
Quindi i cinque gruppi di lavoro restituiscono in seduta plenaria. I risultati sono rilevanti e denotano un patrimonio di conoscenze che in AVSI emerge dall’interazione quotidiana con le persone. Il segretario generale di AVSI Giampaolo Silvestri conclude sottolineando che accrescere la capacità di condivisione è fondamentale per il futuro di AVSI. Ci ricorda che AVSI è una e che il processo di decentralizzazione non deve creare isole. Fra i caratteri distintivi di AVSI vi sono l’attenzione alla persona e l’accompagnamento della comunità anche oltre il progetto. La presidente di AVSI Patrizia Savi ci invita ad andare oltre i vincoli imposti dai donatori entro un intervento che ha un inizio ed una fine e ci ricorda che la creatività e la libertà si attivano maggiormente quando si hanno dei vincoli.
E’ con questo invito che il meeting si chiude: esercitare la nostra creatività e libertà al di là dei vincoli.
Per me si tratta di un messaggio importante. Spesso lavorando a Bruxelles mi interrogo sullo scopo del mio lavoro. L’Unione europea è una macchina così burocratica e strutturata che sembra impossibile scalfirla ed andare oltre i limiti imposti. Partecipare ai meeting annuali mi aiuta a capire con quanta originalità e creatività si può rispondere ai bisogni. AVSI riesce a farlo a partire dai tratti distintivi e dai principi fondamentali che la contraddistinguono. La sfida per il futuro sarà quella di trovare un giusto equilibrio fra i cambiamenti imposti dalle mutevoli circostanze e la capacità di conservare la propria essenza.