Nei 46 anni di storia di AVSI c’è un tema che continua a confermarsi come perno irrinunciabile di ogni nostra azione e progetto, e resiste a ogni svolta della cooperazione allo sviluppo a livello internazionale: il riconoscimento della centralità della persona. Sono parole che funzionano, tanto che anche il settore privato ce le ha “scippate” perché ne ha colto la potenzialità e la “convenienza”.
Per noi sono una continua provocazione a partire dal riconoscimento del bisogno effettivo delle persone vulnerabili, dotate sempre e comunque di risorse uniche. Da questo bisogno ci muoviamo per costruire un progetto di sviluppo e valorizzazione per e con la persona “beneficiaria”, in un rapporto dinamico.
In questo dato fondamentale si innesta per noi l’obiettivo di sviluppo sostenibile 5, Women empowerment, integrato con tutti gli altri obiettivi dell’Agenda 2030, perché ha a che fare con una relazione nuova che è tempo che si stabilisca tra le persone (beneficiari, operatori della cooperazione, istituzioni, imprese). Una relazione alla pari tra persone consapevoli della propria unicità, del proprio “positivo”.
AVSI ha imparato da donne come Teddy Bongomin e Felicity Acan di Kampala in Uganda, invitate qui all’Onu a intervenire, che il punto sorgivo di ogni processo di empowerment femminile è proprio la consapevolezza del proprio valore: il riconoscimento di sé e della propria dignità come un bene mai conculcabile, mai riducibile, che nessuna circostanza al mondo (nemmeno la miseria, la violenza, l’abuso) può rimuovere.
Niente può abbattere una donna che ha scoperto il suo valore, perché una simile scoperta la rende generativa, capace di mettere in moto un processo di sviluppo che investe tutti i suoi “prossimi” e si irradia fino a trascinare tutta la comunità di riferimento. Diventa come un’onda inarrestabile.
Lo constatiamo nei villaggi in Burundi, in Mozambico, in Uganda o in Kenya: basti solo pensare ai gruppi di risparmio che nascono come proposta integrata di nostri progetti.
Sono le donne consapevoli e desiderose di un passo in avanti per se stesse e i loro figli che partecipano con costanza e non mollano.
Nell’ambito del progetto SCORE in Uganda si sono costituiti 1625 gruppi di risparmio e credito di villaggio per un totale di 37 mila membri che hanno risparmiato insieme 3.889.055 milioni di dollari. Le protagoniste di questo lavoro erano all’80% donne.
SCORE (Sustainable Comprehensive Responses for Vulnerable Children and their Families) è nato con l’obiettivo di cercare risposte sostenibili e globali ai bisogni dei bambini vulnerabili e delle loro famiglie: 208 mila le persone coinvolte, 34 mila i nuclei famigliari raggiunti, 50 i partner per l’implementazione del progetto, oltre 200 le persone dello staff impegnato. Finanziato da USAID e realizzato da AVSI Uganda e un consorzio di ong, SCORE ha puntato a sviluppare i rapporti interni alle comunità, favorendo le relazioni con le istituzioni locali, piuttosto che concentrarsi sulla mera distribuzione dall’alto di beni o servizi.
Le donne sono state le player principali di questo progetto riuscito grazie al metodo della "graduation": l’accompagnamento personalizzato e tagliato su misura della persona verso il traguardo (graduation) dell’autonomia.
Posso solo testimoniare che raramente ho visto la stessa felicità e soddisfazione delle donne che uscivano dal progetto. In genere un beneficiario teme l’uscita dal progetto, perché è come se perdesse una tutela. Invece con questo investimento nel percorso personalizzato di empowerment, queste donne non vedevano l’ora di essere "graduated". Di prendere il via per avviare la loro propria attività imprenditoriale, diventare padrone di se stesse e protagoniste del loro destino.
Definire generativo il processo del women empowerment che comincia dalle donne, e che non può escludere la partnership con tutte le componenti della società, credo sia l’aggettivo più adeguato perché contiene delle chiavi proprie dello sviluppo: concepire una novità, darle vita, lasciarla andare per il bene di tutta la comunità. Tre passi che a loro volta mettono in atto altri processi.
Si irradia così dall’esperienza di una singola persona un processo positivo di empowerment e di contagio di dignità.
Ma c’è un corollario fondamentale in tutto questo. Occorre partire dal basso, dagli stili di vita quotidiani, e integrare azioni diverse coinvolgendo tutti i soggetti di una comunità, donne e uomini, aggregazioni della società civile, istituzioni, imprese, centri educativi. Ci sono Paesi che hanno delle ottime leggi ottenute dopo lunghe battaglie di advocacy ai tavoli delle istituzioni. Ma queste leggi poi non sempre funzionano se non avviene nel terreno un cambiamento culturale.
Solo che appunto questa “novità” non può essere imposta dall’esterno. Nessuna campagna di comunicazione o strategia riuscirà a sostituire l’esperienza diretta personale di un progetto che coinvolge la persona fino all’ultima fibra e le fa scoprire che ce la può fare.
Lo snodo è accompagnare alla scoperta del loro valore le donne nel terreno, nei villaggi, là dove sono vittime di abusi o destinate solo a ruoli concepiti in sistemi patriarcali. Occorre lavorare sempre sui due piani (advocacy e progetti sul terreno), partendo dall’ascolto del bisogno reale, dall’accompagnamento alla pari.
Non esiste più un noi e un loro. Una conquista di ciascuna, è una conquista di tutti noi.