Per ricostruire la Siria non rinnoviamo le sanzioni che scadono

Con la scadenza delle sanzioni alla Siria prevista per il 1° giugno, il Segretario generale di AVSI rivolge un appello all’Unione Europea, per dare al popolo siriano l’opportunità di ricostruire il Paese e ricominciare.

Vista da Aleppo, Siria
Paesi Siria
Data 20.05.2025
Autore di Giampaolo Silvestri, Segretario generale di AVSI

Qualcuno le definisce “un cadavere di cui liberarsi”, per far spazio alla vita. Sono le sanzioni europee imposte alla Siria di Assad che tuttora – nonostante l’alleggerimento deciso lo scorso febbraio e il recente annuncio del presidente americano - permangono e sulle quali l’Unione europea dovrà esprimersi il 20 maggio prossimo.

Chi è sul terreno dall’inizio del conflitto, accanto alla popolazione, con progetti di emergenza, ha misurato e continua a misurare l’impatto distruttivo che le sanzioni, nelle varie forme, hanno sulle persone e chiede a gran voce all’Unione Europea di non rinnovare le sanzioni che scadono il 1 giugno per permettere ai siriani di ricostruire il loro Paese e di ripartire. Il Paese ha bisogno di fondi per passare da una situazione di emergenza cronica alla ricostruzione e allo sviluppo, con interventi mirati e sistemici in settori vitali quali educazione e creazione di lavoro, sanità, agricoltura e sicurezza alimentare. Sono i pilastri sui quali occorre investire per recuperare una generazione perduta e rilanciare un paese devastato. Ma con i fondi, hanno bisogno di strumenti di libertà: cancelliamo le sanzioni.

I siriani, dopo aver sopportato quattordici anni di un conflitto fratricida, hanno visto precipitare in pochi giorni un regime durato decenni e sono di fronte a una svolta che sperano possa essere positiva. Ma questa speranza va supportata, alimentata con strumenti concreti.

Le sanzioni hanno svolto un ruolo importante nell'isolare il regime di Assad e condannarne le atrocità, questo è innegabile. Tuttavia, le stesse sanzioni hanno anche schiacciato la popolazione, soprattutto la più vulnerabile, e bloccano la rivitalizzazione economica: ostacolano gli sforzi per fornire aiuti, ricostruire le infrastrutture distrutte e rilanciare le attività e i servizi di base. Basti pensare agli ospedali privi di attrezzature vitali e personale preparato, alle reti elettriche interrotte, ai sistemi idrici in pessimo stato

Le agenzie umanitarie, le organizzazioni della società civile e gli imprenditori siriani si trovano di fronte a muri invalicabili nel trasferimento di fondi, nell'importazione di forniture o negli investimenti nella ripresa. Mentre la crisi umanitaria si aggrava e il deterioramento delle condizioni economiche mina la fiducia delle persone che decidono di andarsene. Il paese si è svuotato dei migliori talenti e continua a svuotarsi. La richiesta di visa per andare all’estero è un’emorragia continua.

Lo stop alle sanzioni aprirebbe a una transizione che potrebbe ribaltare queste condizioni, trattenere le risorse umane, stabilizzare il Paese e consentire l'emergere di uno Stato unito e responsabile, che consenta ai siriani di tornare e ricostruire, garantisca i diritti e la protezione di tutti i siriani e riduca le minacce provenienti da attori non statali.

Se invece la ripresa viene compromessa dall'incapacità di attrarre investimenti, pagare gli stipendi e ripristinare le infrastrutture e i servizi essenziali, la fiducia nel nuovo governo ad interim potrebbe crollare ed esporre a un nuovo ciclo di violenza. Ci sono cenni di ammorbidimento e riapertura da parte di vari stati nei confronti della nuova Siria, e certamente non si può essere ingenui: la fine delle sanzioni aprirà la strada a enormi interessi e appetiti stranieri per il giro di affari che si genererà, perciò occorrerà vigilare su tutte le implicazioni a livello di relazioni internazionali ed equilibri geopolitici e finanziari, tutelare le minoranze e i più vulnerabili, garantire i ritorni dei rifugiati in sicurezza. Ma è ora di liberare la Siria da una morsa mortale e permettere al popolo siriano, quello in patria e quello rifugiato all’estero, di riprendersi la propria terra, la propria casa, il proprio destino per ricostruirlo.

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Articolo pubblicato il 20 maggio 2025 su Avvenire