Caro direttore, perché aiutare Paesi di Africa o Medio Oriente dai quali vengono potenziali terroristi? Perché investire nella cooperazione allo sviluppo, quando cresce la domanda di sicurezza dei cittadini che si sentono minacciati? Questa obiezione che sta sottesa e silenziata è al centro oggi di un dialogo che vede l’Italia protagonista a New York, nel quartier generale dell’Onu, nei giorni dell’Assemblea generale.
In un dialogo che coinvolge i ministri degli Esteri di Italia, Libia, Tunisia, Niger, Uganda, Kenya, il nostro Paese racconta «buone pratiche» che nascono dalla collaborazione tra istituzioni, società civile e imprese profit. Documenta che ogni euro impegnato nell’aiuto allo sviluppo è un investimento di lunga durata per la sicurezza delle nostre città. Qualche giorno fa il Washington Post ha pubblicato la storia di una ragazzina, Ayan, che vive nel campo profughi di Dadaab in Kenya e che con altri 5000 coetanei ha partecipato a una selezione proposta da un’università canadese. In palio 16 borse di studio in Canada e, soprattutto, la cittadinanza canadese. Il reporter descriveva minuziosamente l’ansia di Ayan, decisa a vincere una competizione crudele, considerata «l’unica via di uscita» da un destino segnato, e da quel campo.
Dadaab non è un posto qualsiasi: da là vennero i terroristi che nel 2015 uccisero
148 studenti a Garissa. Presenta le condizioni ideali per reclutare estremisti violenti. Che cos’hanno da perdere i giovani che vivono là se optano per la violenza? Hanno alternative? Questo lo snodo: offrire un’alternativa. Non per forza dall’altra parte dell’oceano ma possibilmente nella loro terra, dove possono parlare la loro lingua e contribuire alla crescita del loro Paese. E un’alternativa attraente si costruisce solo su due pilastri: educazione e lavoro.
Di educazione parlano in tanti. Anche i reclutatori del terrore investono in «formazione» dei giovani. La differenza si gioca nel tipo di educazione che proponiamo, nei contenuti, nei modi e nei fini. Educazione di «qualità e inclusiva» come la vogliono gli obiettivi dell’Agenda 2030 dell’Onu, è qualcosa di più radicale che insegnare a leggere e scrivere. Implica mettere in moto un processo per cui la persona scopre che la realtà in sé e l’altra persona possono avere in serbo qualcosa di positivo. È un processo contagioso che accende la fiducia nel proprio valore e unicità e quindi è generativo di sviluppo. Un esempio: sempre a Dadaab l’invito a partecipare ad alcuni gruppi scout ha riportato a scuola 329 bambini che ne erano scappati.
Ma educazione e formazione (compresa quella professionale) diventano sterili se alla fine non prevedono un inserimento lavorativo. Andare a scuola e poi trovarsi senza un posto di lavoro alimenta senso di ingiustizia e frustrazione, di rivalsa anche violenta. In modo speculare anche il lavoro ha bisogno di educazione per restare al passo con lo sviluppo, per avviare circoli virtuosi. Visto da Occidente tutto ciò, ripeto, è il più grande investimento in sicurezza che si possa fare.
Come conseguenza quello slogan rozzo «aiutiamoli a casa loro» andrebbe inteso in modo più ampio: non (solo) un modo per tenere i migranti lontano da qui. Se Ayan se ne va in Canada su quale capitale umano potrà contare il suo Paese? Se dalla Siria se ne vanno medici, insegnanti, ingegneri, chi la ricostruirà a guerra finita?