Nella tendopoli vivono 276 mila rifugiati, la maggior parte somali. Nairobi: via tutti. Ma le ong mettono in guardia: è solo propaganda, sarebbe una catastrofe.
di Enrico Caporale da La Stampa.it, 28 dicembre 2016
Chiudere Dadaab? Impossibile. Liesbeth Aelbrecht, capo missione Msf in Kenya, non ha dubbi: organizzare il rimpatrio volontario di oltre 270 mila persone sarebbe «un'operazione gigantesca e difficile persino da immaginare». Soprattutto in cinque mesi. Eppure Nairobi insiste: entro maggio il campo profughi più grande del mondo non esisterà più. Come Aelbrecht la pensano le principali ong attive in Kenya. Da Avsi a Human Rights Watch sono tutti convinti che dietro l'annuncio del presidente Uhuru Kenyatta si nasconda la volontà di spingere più rifugiati possibile fuori dal Paese. «Altro che rimpatri volontari - spiega Bill Frelick, responsabile per i diritti dei rifugiati di Human Rights Watch -. I profughi non hanno alternativa. Lasciano il campo per paura di essere espulsi o deportati. Sono convinti che a breve Dadaab non ci sarà più». Un inganno, insomma. Che ha già spinto 35 mila persone fuori dal Paese.
Non è la prima volta che Kenyatta minaccia di smantellare tutto. Ora, però, sembra fare sul serio. Il 2017 è l'anno delle presidenziali e anche in Kenya sicurezza e rifugiati sono temi elettorali. Il rischio, mettono in guardia le ong, è una catastrofe umanitaria che spingerebbe migliaia di disperati col sogno dell'Europa nella rete dei trafficanti di uomini. O, peggio, tra le braccia della jihad.
Oggi a Dadaab (nella lingua locale «luogo roccioso e duro» per via della posizione all'estremità orientale del Kenya, una delle più aride) risiedono circa 276 mila persone (grosso modo come a Catania o Venezia) ma durante la carestia che nel 2011 ha travolto il Corno d'Africa il campo è arrivato a ospitarne fino a mezzo milione. Si tratta soprattutto di somali in fuga dalla guerra civile. Come Mohamed, un ragazzo che vive nel campo dal 2008. «Tornare in Somalia? - racconta -. Ma scherziamo? Qui a Dadaab ho tutto: scuole, ospedali, cibo. Ci sono persino cinema e campi da calcio. Là fuori è un giungla: violenze sessuali, estorsioni, malattie. Senza contare il rischio di finire ostaggio degli jihadisti».
L'annuncio della chiusura del campo è arrivato lo scorso maggio. «Dadaab - ha detto Kenyatta - è terreno fertile, se non un rifugio, per Al Shabaab», il gruppo jihadista somalo che nel 2013 ha attaccato il centro commerciale Westgate di Nairobi (67 morti) e nel 2015 ha fatto strage all'università di Garissa (148 uccisi). La data prevista per la chiusura era lo scorso 30 novembre, poi slittata di sei mesi. Ma per molti Kenyatta vuole solo guadagnare tempo in vista del voto di agosto 2017, e magari strappare nuovi fondi alla comunità internazionale. D'altra parte, il viaggio che John Kerry ha fatto in Kenya lo scorso agosto non è passato inosservato. Durante la visita il segretario di Stato Usa ha promesso a Nairobi 146 milioni di dollari in più da utilizzare per assistenza umanitaria e rimpatri volontari.
Anche Andrea Bianchessi, responsabile Avsi in Kenya, spiega che «sbaraccare Dadaab non è possibile». «In Tanzania due anni fa è servito l'esercito - dice - e si trattava di molta meno gente». In più la quasi totalità dei profughi intervistati sostiene di «non voler tornare in Somalia» per paura di violenze o reclutamenti forzati nei gruppi armati. Secondo Msf rispedire i profughi in Somalia «è una decisione inumana e irresponsabile» perché costringerebbe migliaia di disperati a rientrare in un Paese devastato dalla guerra, con 5 milioni di persone a rischio carestia (stima Onu). E allora perché 35 mila somali hanno già accettato i rimpatri volontari? La risposta la dà ancora Bill Frelick. «In nessun modo - spiega - questi rimpatri possono essere considerati volontari. A Dadaab non c'è somalo che non tema per la propria incolumità. Sono i funzionari del governo a convincerli a lasciare il campo».
La convenzione Onu sui rifugiati (1951) vieta il cosiddetto «refoulement», il rimpatrio che possa minacciare la vita o la libertà dei rifugiati. Ecco perché Nairobi farebbe ricorso ai rimpatri volontari. Ma se i somali dicono di non voler tornare in patria, allora dove andranno a finire? Bianchessi racconta che «in migliaia hanno lasciato Dadaab in fretta e furia e ora si trovano in un limbo di campi più piccoli e meno attrezzati». Col rischio di un nuovo esodo. A lanciare un monito al governo del Kenya ci pensa Marco Lembo (Unhcr): «Da 30 anni il Paese ospita un numero grandissimo di rifugiati - dice -. Vigileremo affinché trattati e convenzioni internazionali siano rispettati». Ma aggiunge: «Nairobi non può essere lasciata sola, la comunità internazionale deve fare la sua parte».