L’unica speranza per il Sud Sudan sono questi bambini

Data 06.07.2018

DI ALESSANDRO GILIOLI, FOTO DI ALESSANDRO PENSO PER L'ESPRESSO

Giuba è l’unica capitale al mondo in cui non esiste un acquedotto, non esiste una rete fognaria e non esiste una rete elettrica. L’aeroporto è una striscia di bitume sciolta dal caldo, senza alcun edificio attorno: c’è solo una grande tenda bianca dell’Onu in cui si accalcano funzionari, diplomatici, cooperanti e faccendieri. Anche gli aerei sono quasi tutti delle Nazioni Unite, nelle sue varie agenzie, o di altre organizzazioni internazionali. È vietato fotografare, dappertutto, e i muri delle case sono segnati dai buchi di proiettile. Ma intanto è da un po’ che non si spara, nella capitale del Sud Sudan, e questa è già una buona notizia.

Forse l’unica, tuttavia.

Spesso si pensa che il Sud Sudan sia uno staterello, in realtà è grande il doppio dell’Italia. È il Paese più giovane del mondo: prima del 2011 era parte del Sudan, con cui in realtà non c’entra granché. Il Sudan è desertico, etnicamente arabo e di religione musulmana; questo pezzo d’Africa è invece fertile e piovoso, la sua popolazione è subsahariana dalla pelle molto scura, l’Islam non ha mai attecchito e sono tutti di credo cristiano o animista. Una catena di monti divide i due Paesi, che solo la superficialità coloniale aveva appiccicato tra loro con la colla.

Dal 2011, appunto, il Sud Sudan è diventato indipendente e non ha trovato altro modo con cui chiamarsi, anche perché a sua volta ha un’identità fragile e frammentata, abitato com’è da dozzine di etnie che parlano lingue diverse. La più numerosa è quella dei Dinka, nilotici d’alta statura; ma non sono più di un quinto della popolazione. Un’altra tribù importante - e avversaria della prima - è quella dei Nuer, meno imponenti ma più intellettuali. Poi ci sono infiniti altri gruppi e sottogruppi, alleati o nemici tra loro a seconda delle circostanze.

Quando il Paese è nato in teoria aveva tutte le carte per fare un salto dall’economia di sussistenza (pastorizia e agricoltura) in cui viveva da millenni: al nord, al confine con il Sudan, è pieno di petrolio; le foreste sono ricche di teak, legno pregiato; e la conservazione intatta di uno straordinario ambiente naturale avrebbe potuto anche creare un boom turistico. Invece il petrolio si è rivelato una maledizione: le due etnie principali hanno cominciato subito ad ammazzarsi per il controllo dei pozzi, poi la guerra civile si è frantumata in un caotico tutti contro tutti.

Oggi a Giuba comanda il capo dei Dinka, un tipo che si fa fotografare sempre con il cappello da cowboy regalatogli (dice) da George W. Bush. Il capo dei Nuer è invece in esilio, ma il suo esercito è ancora attivo e il Paese è tutt’altro che pacificato. In più, pezzi sparsi delle varie milizie si sono messi in proprio, trasformandosi in bande armate che vivono nella boscaglia e di lì escono per assaltare i villaggi, rapinare il bestiame, violentare le donne. Così più di un terzo della popolazione civile è fuggito a piedi dal Paese, perlopiù in Uganda. I pastori rimasti girano armati tipo Rambo.

Di contadini non ce n’è quasi più, se non nei villaggi di montagna, un po’ più difendibili. Le strade asfaltate non ci sono mai state; quelle di terra - abbandonate - sono spesso impraticabili per le buche profonde: e dopo un temporale è impossibile percorrerle, anche coi migliori fuoristrada. In ogni caso chi ci va lo fa a suo rischio, perché le bande di militari predoni possono uscire dal bush in ogni momento. Il servizio postale è sospeso da tempo. Anche la telefonia mobile - indispensabile in Paesi come questo, che quella fissa non l’hanno mai avuta - non funziona più da anni: i ripetitori sono stati distrutti o sono rimasti senza energia. Insomma è il Medioevo, ma quello del X secolo: nessuna forma di comunicazione, paura diffusa, scorrerie barbariche.

Milioni di profughi, si diceva, hanno sconfinato in Uganda, e continuano a farlo ogni giorno. Tra i due Paesi la frontiera è porosa, i disperati del Sud Sudan scendono dai monti stremati e vengono accolti di là dal confine dall’Unhcr e dalle Ong. Tutta l’Uganda del nord è costellata di campi profughi: talvolta tende, talvolta lamiere o tukul. I sud sudanesi qui trovano un posto dove semplicemente non rischiano di essere ammazzati ogni giorno. L’Unhcr e le Ong distribuiscono cibo - fagioli, di solito - e medicinali urgenti. I più anziani accendono un fuoco per prepararsi l’ arege , un distillato superalcolico a base di mais, sorgo e cassava. La sera, se ne ubriacheranno.

Salendo in fuoristrada dal campo ugandese di Kitgum verso il Sud Sudan ci si accorge di essere arrivati al confine perché finisce la strada asfaltata. Di là, è solo terra. La frontiera è un tukul dove si pagano cento dollari a persona per entrare. Appena oltre la linea incrociamo una camionetta piena di uomini armati senza divisa, alcuni a torso nudo, in piedi: hanno saputo chissà come che sono arrivati degli stranieri e vanno al posto di blocco con i fucili, a prendersi i soldi. Ci salutano e ridono, non sappiamo a che milizia appartengono.

Così possiamo proseguire verso Isohe, la nostra meta: è in questo villaggio di capanne che una Ong italiana, l’Avsi, ha piazzato la sua base per provare ad affrontare una situazione umanitaria disperata.

Il primo, primissimo obiettivo riguarda la salute e l’alimentazione: qui, da quando è scoppiata la guerra civile, si muore di tutto, dalla diarrea alla malaria, dal tifo alla rabbia. Quelli di Avsi intervengono nel modo più capillare possibile: visitando nei loro centri soprattutto le donne incinte e i bambini, per dividerli poi tra quanti possono tornare al villaggio con le buste di cibo proteico - una pappa a base di pasta d’arachidi - e quanti invece devono essere ricoverati nell’ospedale di Isohe, dove un medico ugandese cerca di curare chi può, con gli strumenti che ha. Il momento più delicato è quello in cui i bambini vengono pesati - su una bilancia che è un sacco appeso - e misurati. Se il braccialetto di carta avvolto attorno al piccolo polso arriva al segno rosso, la situazione è disperata. Ma a volte basta uno sguardo ai capelli: se danno innaturalmente sul biondo è segno di pessima nutrizione e c’è bisogno di un intervento urgente. Circa 150 mila persone, nella vallata, sono monitorate così, ma è non è facile raggiungere le famiglie che si sono nascoste in montagna e hanno paura di scendere.

Affrontare la fame e le malattie, inoltre, non basta: è per questo che i ragazzi di Avsi lavorano anche in altre due direzioni, cioè l’agricoltura e la scuola. La prima è un paradosso: in una terra dove basta buttare un seme per far spuntare un albero, le colture sono state quasi tutte abbandonate per timore degli assalti armati. Ogni attività stanziale è ad alto rischio e qui resistono solo i pastori, che fanno vita nomadica. L’Ong cerca quindi aree protette - o comunque meno battute dalle bande - per provare a far rinascere le coltivazioni, fornendo sementi, istruzioni tecniche, vanghe. Anche far andar avanti le scuole non è facile: non essendoci più uno Stato, nessuno paga gli insegnanti, che quindi spesso smettono di andare al lavoro; anche le famiglie sono poco propense a mettere a repentaglio la vita dei loro ragazzini, che magari devono camminare una o due ore nel bush per arrivare a scuola. Avsi cerca di rimediare con programmi tipo “Food for education”: agli alunni si dà da mangiare, così le famiglie sono incentivate a mandarli. A volte anche gli insegnanti vengono nelle classi perché a mezzogiorno è garantito un pasto, sempre grazie alle Ong. Alcune scuole inoltre hanno dei sotterranei in cui nascondersi se arriva una banda.

La sfida sembra impossibile, ma continua. Grazie alla passione di chi l’ha intrapresa e ha scelto di vivere qui, su brande assalite da zanzare, tra il caldo torrido e le piogge torrenziali, lontano da ogni comodità, per aiutare altri esseri umani; ma anche grazie all’Agenzia italiana per la cooperazione e lo sviluppo che - insieme ai donatori - sponsorizza il “progetto Sanpic”, che sta per Sicurezza alimentare, nutrizione e protezione di Ikwoto County, cioè quest’area meridionale del Sud Sudan.

Una regione più raggiungibile paradossalmente dall’Uganda che dalla capitale Giuba, dove si può arrivare solo con un tortuoso viaggio in parte in fuoristrada e in parte con un aeroplanino che decolla dalla “strip” sterrata di Torit, indispensabile per evitare i luoghi di terra più a rischio di milizie aggressive. Ma è proprio in questa valle isolata e nelle sue scuole frequentate per fame che si mettono insieme ragazzini di etnie diverse, i cui padri si sono uccisi tra loro. È qui che si insegna una lingua comune, l’inglese, che magari gli verrà utile da grandi. È qui che i figli dei nemici giocano insieme sulla stessa altalena e mangiano puré di sorgo seduti sotto lo stesso albero. Ed è qui, in fondo, che il Sud Sudan ha ancora una speranza.