Raed ammette, senza vergogna, di aver pianto. Un omone di 58 anni, abituato ormai a lottare per mantenere la sua famiglia a Midan, un quartiere popolare a ovest di Aleppo che nella lunga e recente battaglia aleppina è stato tra i più colpiti dai bombardamenti. Le pallottole non hanno risparmiato neanche lui, perforato alla schiena da tre colpi che si sono fermati nella spalla, in un polmone e nel fegato. E lì rimarranno ancora a lungo perché rimuoverli richiede un’operazione impossibile e lui ha imparato a conviverci.
A togliergli il sonno, ora, è un’ernia dolorosa che l’ha costretto a letto per settimane e che non ha nulla a che fare con quei colpi. Nei mesi scorsi, ogni giorno durante l’assedio, a causa delle lunghe interruzioni alla rete di distribuzione dell’acqua ad Aleppo, ha trasportato i pesanti contenitori di acqua potabile dai luoghi di raccolta fino a casa. Ad aspettarlo una figlia di 5 anni e la moglie. “Non sono riuscito a trattenere le lacrime dalla gioia alla notizia dei medici”, ci spiega. “Perché finalmente potrò essere operato. Ho aspettato il mio turno troppo a lungo”.
Le lacrime di Raed non sorprendono in Siria, dove riuscire a scalare posizioni nelle liste d’attesa per gli interventi, anche i più banali, è impresa impossibile. L’ultimo report pubblicato a novembre dall’ufficio delle Nazioni Unite per gli affari umanitari, l’OCHA, conferma la realtà di una crisi sanitaria senza sbocchi. Meno della metà delle strutture ospedaliere è pienamente funzionante, a fronte di oltre 11 milioni di siriani che attualmente ha bisogno di cure. Un dato impressionante che trova la sua spiegazione primaria nei bombardamenti, che hanno colpito le strutture sanitarie al ritmo di venti attacchi al mese solo nella prima metà del 2017. E poi la paura, che fa fuggire buona parte dei medici e degli infermieri, oltre alla difficoltà a reperire le medicine.
A volte, l’attesa di una cura può durare tutta una vita, come per Nour, a Damasco. Ha cinque anni e, dalla nascita, soffre di una malformazione alla gambe. Solo ora è riuscita a essere ammessa in sala operatoria, accompagnata dalla zia: “Ricordo la gravidanza di mia sorella, da sfollata nel quartiere di Al-Ghouta, a Damasco, con la paura costante di dover fuggire ancora. Lei è ancora intrappolata lì”.
Nour e Raed hanno potuto ricevere le cure perché sono rientrate nel programma “Ospedali aperti ” lanciato dalla ong Fondazione AVSI proprio per reagire alla crisi sanitaria siriana e che, a partire dal mese di novembre, ha curato gratuitamente quasi 1000 pazienti. Il progetto è stato avviato a luglio, con l’obiettivo di supportare tre ospedali siriani, due a Damasco e uno ad Aleppo, e dar loro la possibilità di curare gratis chi non può permettersi di pagate. Dopo una prima fase preparatoria, dedicata all’acquisto delle apparecchiature mediche, l’organizzazione dei vari servizi nelle strutture coinvolte, la costituzione dei comitati per l’accoglienza dei pazienti e l’individuazione dei casi più urgenti, nell’ultimo mese si è passati alle cure effettive. E per la domanda presente, è solo un inizio.