Ricollocate per ragioni di sicurezza oltre 200 famiglie del campo profughi Ashti1, a Erbil. Circa mille persone sono state trasferite presso alcuni alloggi in città, grazie all'iniziativa dell'arcidiocesi caldea di Erbil, che sosterrà i costi di affitto. Gli operatori di AVSI in Iraq, presenti nel campo sin dalla sua apertura nel 2014, si sono subito attivati per ridefinire un piano di supporto e continuare a sostenere le famiglie nonostante si trovino in quartieri diversi della città.
Non lasciare soli gli ex abitanti del campo Ashti1 ora sgomberato: è il grande obiettivo di un nuovo progetto che sarà realizzato da Fondazione AVSI a Erbil per accompagnare il trasferimento in città delle famiglie e continuare a garantire ai più piccoli luoghi sicuri in cui studiare e giocare.
“Adesso hanno la possibilità di vivere in ambienti più protetti, ma si tratta di un ennesimo cambiamento delle loro abitudini: dovranno ricominciare una nuova vita e, inoltre, saranno più difficilmente raggiungibili dagli aiuti umanitari”, ha spiegato Marco Perini, responsabile AVSI in Iraq. "Quando vivi in un campo tutti sanno dove sei e sei ben visibile, un appartamento in città invece ti isola. E c'è il rischio di essere abbandonato, nonostante i bisogni siano rimasti immutati".
In questi giorni lo staff di AVSI sta lavorando per individuare gli ex abitanti del campo, quartiere per quartiere. Dopo questa prima fase, si cercherà di riprendere gli aiuti interrotti, con una complicazione ulteriore: fino a pochi giorni fa, per organizzare un'attività bastava arrivare sul posto e chiamare a raccolta tutti i bambini e le donne, mentre ora si dovrà pensare anche ad affittare nuovi spazi per riunirsi e gli autobus per gli spostamenti. "Sembra un paradosso - conclude Marco Perini - ma queste persone hanno ancor più bisogno di noi, nonostante siano passate da un container a una casa".
Il campo Ashti1 era sorto all'interno di un terreno di proprietà dell'arcidiocesi caldea di Erbil e grazie al supporto dell'arcivescovo Bashar Warda, ma non ha mai ricevuto un riconoscimento ufficiale da parte delle autorità locali. Anche per questo motivo, i suoi abitanti erano costretti a vivere in condizioni estreme, a condividere pochi e piccoli container costruiti all'interno di due vecchi capannoni industriali, con uno scarso o nullo accesso all'acqua e ai servizi igienici.