di Alver Metalli - La Stampa
La rivolta dei dannati della terra tra crollo economico, degrado sociale e un grave scandalo di corruzione. La voce di Fiammetta Cappellini, da tredici anni nell’Isola per l’Ong italiana AVSI.
Al giro di boa del sesto anniversario di pontificato, e a nove anni dal terribile terremoto, nell’agenda ufficiale ed ufficiosa dei viaggi papali manca Haiti, il più derelitto e flagellato dei Paesi dell’America Latina.
Notizie in proposito?
«Non ancora purtroppo, ma ci piacerebbe molto! Gli Haitiani ne sarebbero felicissimi! Per ora ci accontentiamo di avere il primo cardinale nella storia della Chiesa di Haiti, monsignor Chibly Langlois», afferma Fiammetta Cappellini, 46 anni, di cui tredici in questa parte dell’Isola per l’Ong italiana AVSI. Prima di essere capomissione ha lavorato per tre anni nei quartieri difficili e conflittuali di Cité soleil et Martissant, insieme alla Commissione “Giustizia e Pace” della Conferenza episcopale haitiana per un programma di reintegrazione sociale dei giovani delle bande armate. Il 13 gennaio 2010 la prima scossa del terremoto che ha quasi raso al suolo la capitale Port-au-Prince l’ha raggiunta nell’ufficio, e da Haiti non se n’è più andata. Di acqua - e di macerie - sotto i ponti ne è passata molta, ma non abbastanza da portarsi via la spessa coltre di miseria che fa della repubblica il più povero tra i Paesi poveri del mondo.
Quel mondo che guarda da un’altra parte, ad altre crisi e ad altri scenari geopolitici, poi, all’improvviso, salta fuori Haiti, per un cataclisma, per una epidemia infettiva, per un uragano, per una siccità estrema, per un golpe tentato o fatto, per un governo che reprime con violenza… Cosa sta succedendo adesso?
«Si sono unite un’importante crisi economica e sociale con un grave scandalo di corruzione legato al cattivo utilizzo e allo sperpero dei fondi del programma “PetroCaribe”, il tutto in una situazione già conflittuale, e questo ha scatenato il malcontento. Dopo gli incidenti e gli scioperi generali di luglio e dopo le manifestazioni di ottobre, di nuovo il 7 febbraio l’opposizione e la società civile in generale sono scese in piazza per protestare. La protesta si è estesa a macchia d’olio, degenerando in violenze e disordini. Il Paese è rimasto di fatto completamente bloccato per dieci giorni: barricate ovunque, gravi episodi di violenza con morti e feriti, carenza quasi totale di benzina, gas e spesso persino acqua potabile e cibo. La protesta è scaduta a tratti nella delinquenza, interi quartieri sono diventati terra di nessuno, con una presenza della polizia insufficiente e inadeguata».
Quali sono le richieste dei manifestanti?
«Invocano le dimissioni del presidente Jovenel Moise e del primo ministro Jean-Henry Céant, e che si mettano immediatamente sotto processo le persone implicate nello scandalo “PetroCaribe”, che sono di fatto i maggiori esponenti politici e di governo degli ultimi dieci anni. Nel frattempo, la popolazione soffre gli effetti di una grave crisi economica. Le comunità più vulnerabili sono letteralmente alla fame, non c’è lavoro, non c’è un futuro per i giovani, le scuole sono rimaste a lungo chiuse. Il Paese lotta e chiede giustizia, ma intanto è il popolo a portare le conseguenze più pesanti di questo blocco totale delle attività».
In una lettera aperta alla Nazione pubblicata con evidenza dal quotidiano Le Nouveliste si parla di una crisi «talmente inedita e così severa che tutti si chiedono con ansia. Quo Vadis, Haiti?». Cos’ha di inedito questa crisi? E lei cosa risponde alla domanda su dove vada il Paese?
«A dire il vero questa crisi non mi sembra così inedita, anzi. Rivedo davanti agli occhi immagini del colpo di Stato del 2004. Sono passati quindici anni, non poi così tanti. Rivedo le proteste di piazza contro i risultati preliminari delle ultime elezioni presidenziali, nel 2016. Praticamente ieri. Cosa c’è di inedito? Poco. Forse il grave livello di povertà in cui versa la popolazione nel momento in cui scoppiano queste rivolte. Forse lo stillicidio di questi lunghi anni di speranza sistematicamente tradita e disattesa. Non so... Di inedito, semmai, ce la gravità della crisi e l’assenza di una prospettiva di miglioramento. Nel 2004 la gente credeva fermamente che destituire Aristide avrebbe risolto i problemi, e che un nuovo governo avrebbe certamente fatto di meglio. Nel 2016 la gente scendeva in piazza nella assoluta convinzione che il loro candidato fosse la soluzione giusta per il Paese. Ora la gente scende in piazza contro la situazione attuale, ma senza saper dire quale potrebbe essere l’alternativa positiva. É una protesta “contro”, non “per”. Manca l’alternativa, manca la speranza, manca il futuro».
Dialogo nazionale, elezioni, impeachment del presidente… Sono tutte proposte sul tappeto. Cosa vogliono dire ciascuna di esse e che grado di praticabilità hanno?
«Onestamente in questo momento l’unica certezza che abbiamo, e che trova tutti d’accordo, è che non si vede una via d’uscita. Tutte queste soluzioni sono in corso di discussione, ma nessuna sembra quella giusta. In realtà il Paese avrebbe bisogno di una leadership positiva e credibile, adesso, subito. E non la vediamo da nessuna parte. In passato la Chiesa ha giocato un ruolo importante nel dialogo nazionale, i vescovi in altre occasioni si sono mostrati in prima linea per rilanciare la discussione e invitare le parti a sedersi attorno al tavolo; il Paese avrebbe molto bisogno, proprio ora, di una guida».
La Chiesa da che parte sta?
«Sta con la gente, vede la gente vivere così alla giornata, cosi in difficoltà, e non può che soffrire per loro. Però forse, a volte, si potrebbe dire una parola più forte, si potrebbe tutti insieme farsi sentire di più. Perché si dice la Chiesa, ma si dovrebbe dire ciascuno di noi, noi cristiani. Invece troppo spesso non ci facciamo sentire abbastanza. Certamente la gente ha bisogno di una parola di speranza, il popolo haitiano e in particolare i cristiani di Haiti, hanno bisogno di una parola di fiducia e di speranza da parte del resto del mondo e della comunità cristiana. La condanna della corruzione e del malgoverno è ormai arrivata e da più parti. Ma ciò che serve ora è una parola e un segno di speranza, che faccia sentire a tutti che si può ancora credere in un futuro migliore per questo Paese e per questa gente. Questo la Chiesa – ma tutti noi cristiani - potrebbe e dovrebbe forse farlo con più forza, con più decisione e con più coraggio».
Come vive questa situazione il mondo della cooperazione e del volontariato che lavora ad Haiti?
«Di fronte a queste grandi difficolta, prime fra tutte quella di convivere con la violenza e l’incertezza, le reazioni sono le più diverse. In tanti in questi giorni pensano che lavorare ad Haiti oggi non sia più possibile. Altrettanti invece trovano nella difficoltà i motivi più forti per rilanciare l’impegno. Perché non ci si può arrendere di fronte a queste situazioni. Certamente interroga tutti noi vedere un Paese in queste condizioni. Sono interrogativi forti, che mettono in crisi il senso del nostro lavoro stesso, cristiano o laico che sia. Posso solo portare la mia esperienza quotidiana: vedo ogni giorno i tanti colleghi haitiani in AVSI affrontare mille difficoltà per venire al lavoro. Con coraggio e con determinazione. Questa è la grande forza e risorsa degli haitiani: il non arrendersi mai. Da questa forza la cooperazione internazionale e il mondo del volontariato possono attingere nuove energie, nuove motivazioni. Certo servono programmi, servono strategie, non serve assistenzialismo, serve professionalità. Ma la motivazione viene prima di tutto e gli haitiani non smettono mai di averla».