Valutare l’impatto delle attività del volontariato: la nostra esperienza sul campo nel misurare il cambiamento sociale dei progetti

Data 27.02.2020

Valutare l’impatto delle attività del volontariato per il miglioramento del benessere sociale delle comunità: la questione è tornata d’attualità dopo la pubblicazione, sulla Gazzetta Ufficiale, delle nuove Linee guida per gli enti del Terzo settore. Un testo, quest’ultimo, che chiede alle organizzazioni non profit di coniugare quantità e qualità nella rendicontazione delle proprie attività seguendo la metodologia più idonea al loro contesto operativo. Nell'ultimo numero di Vdossier, rivista edita da 10 centri del servizio volontariato italiani, riporta riflessioni ed esperienze di specialisti di valutazione dell’impatto sociale.

Cooperazione internazionale: la via maestra è la flessibilità

L'intervista di Lorena Moretti a Bruno Baroni, referente AVSI per il Monitoraggio e la Valutazione (M&V) in Congo e Sud Sudan.

Quando la cooperazione internazionale può essere d’esempio alle piccole organizzazioni di volontariato sulla misurazione dell’impatto sociale? Abbiamo chiesto a Bruno Baroni, referente per il Monitoraggio e la Valutazione (M&V) in Congo e Sud Sudan per Fondazione AVSI di raccontarci con quali interrogativi e questioni ci si confronta sul campo, nel valutare il valore sociale di un progetto. «Ritengo necessaria una premessa: il tema del monitoraggio e valutazione di un progetto (M&V) può sembrare molto tecnico, da lasciare ad una discussione tra esperti; in realtà, il fine ultimo dell’M&V non è altro che suscitare una riflessione di aiuto all’azione, quindi assieme a chi è coinvolto nei progetti. In effetti, sforzarsi per identificare e giudicare il cambiamento, è una attività che già di per sé cambia il modo di pensare ed agire, che “orienta al risultato” direbbero gli specialisti della gestione di impresa. Va da sé che tutto il potenziale del M&V scompare quando invece viene relegato ad una discussione tra specialisti, o solo rivolta ai donatori dei progetti.

La valutazione dell’impatto sociale è una forma di potenziale di apprendimento?

Oltre a dare evidenza di un cambiamento si vuole comprendere meglio il contesto in cui il progetto insiste, così da poter arrivare ad una spiegazione del “come” il cambiamento avviene, che per chi è chiamato a “fare le cose” è quello che più importa. Non soltanto si crea conoscenza per scrivere progetti migliori in futuro ma, già durante l’intervento, si aiuta la riflessione tra chi realizza i progetti.

Noi, ad esempio, facciamo molta attenzione a raccogliere i dati e poi validarli nelle comunità; a quel punto, si possono aprire delle discussioni, basate sui fatti, in cui immancabilmente si comprende meglio cosa convenga fare, e la comunità si sente davvero dentro una partnership. Per i progetti più lunghi, una parte dei dati viene raccolta quando il progetto è già attivo, sulla base di domande che sorgono dalla riflessione del personale sul campo ed i beneficiari stessi sui primi segnali del cambiamento, le loro aspirazioni, e anche preoccupazioni. Si tratta di un M&V partecipativo ed empirico, che viene fatto insieme e a beneficio delle persone che lavorano dentro l’organizzazione, in prima istanza, e poi degli stessi beneficiari. È un modo per usare il M&V come occasione per fare meglio e fare insieme, andando ben oltre l’aiuto alla reportistica per il donatore. In sintesi, ragionare su ciò che si fa, serve a farlo in modo migliore; ragionare sul perché lo si fa, serve a motivarsi e pensare al divenire, oltre che all’immediato; e fare tutto ciò assieme serve a diventare un team. Lo abbiamo constatato in organizzazione: le persone sono più consapevoli dei loro ruoli, si sentono più motivate e messe in gioco in prima persona. Si badi bene però a non guardare questo M&E come un lusso, un di più, utile solo internamente, o a favore della comunità. E’ vero il contrario: saper descrivere il proprio modo di lavorare, in uno specifico contesto, quello che viene definito “il proprio valore aggiunto”, è ciò a cui sempre più fanno attenzione i donatori nell’allocare i fondi.

Valutare l’impatto sociale significa guardare non solo ai beneficiari ma all’intera comunità?

Una differenza importante, presa poco in considerazione, è quella tra misurare - e pensare - i progetti come aiuto ad individui presi di per sé, e intervenire invece sulle persone come membri di una comunità. Nel secondo caso mi interrogherò molto di più su come le persone si aiutano dentro la comunità, ed è possibile che io realizzi degli interventi diversi, evitando di calare dall’alto dei modelli alieni, che spesso si rivelano effimeri, quando non dannosi. Dal punto di vista tecnico, si tratta di monitorare i beneficiari complessivi del progetto, e non soltanto quelli specifici del progetto, il che non implica cambiare molto, eppure l’impatto è dirompente. Se penso agli individui, misurerò l’impatto guardando come le 300 persone aiutate dal progetto hanno cambiato la loro condizione, fino al punto che li seguirò nel mio monitoraggio, nel caso lascino la comunità, concludendo con piacere che hanno trovato nuove opportunità. Cosa totalmente diversa è scegliere indicatori basati sulle condizioni dell’intera comunità, dentro cui vivono quelle 300 persone. A quel punto, potrei scoprire che la situazione della comunità non è migliorata, anzi, potrebbe essere peggiorata, quando le persone vanno via. Il peccato capitale dei progetti, che hanno avuto enfasi nel misurare le attività, non è stato tanto quello di mettere in secondo piano i cambiamenti più profondi di per sé, quanto quello di allontanarci da una visione di insieme e di comunità.

L’impatto sociale è un fenomeno che si sta sviluppando con quali nuove caratteristiche?

La valutazione di impatto è una tecnica che, nella maggior parte dei casi, riduce la lettura di un progetto ad un numero, per esempio la capacita di trovare un impiego a seguito di un corso di formazione. La necessità di fare ciò è delle grandi organizzazioni, che finanziano con ingenti risorse progetti pluriennali simili in tutto il mondo e vogliono comparare, quindi hanno bisogno di fare una grossa sintesi. Le piccole organizzazioni, hanno capacità, bisogni e lavorano su progetti diversi. In questo caso, ridurre l’intero progetto ad un numero, oltre ad essere complesso sotto il profilo tecnico, può rivelarsi di poco aiuto; a quel punto una valutazione pura e semplice può essere sufficiente; oppure pensare a una sequenza di piccole valutazioni fatte internamente, come suggerito dai tecnici della “valutazione in divenire” (developmental evaluation); alternativamente si possono fare delle valutazioni di impatto, utilizzando però un buon numero di indicatori, non uno solo, lasciandosi cosi aperte le porte alla possibilità di “scoprire” nella pratica quale sia il più rilevante.

Spesso infatti, nelle storie di successo le cose non accadono come ce lo aspettiamo e, se all’inizio ho scelto un solo indice di cambiamento, potrei non valutare le cose adeguatamente; cosa più grave, perdo l’occasione di imparare come nella realtà il cambiamento avviene davvero. Alcuni anni fa ho incontrato alcune madri di famiglia con storie di marginalità sociale che avevano fondato una cooperativa nella periferia di Guatemala City, portata come storia di successo. Le signore mi dicono che guadagnano esattamente come nell’impresa dove lavoravano prima. Non capisco perciò la differenza, finché noto che stanno fabbricando dei peluches, e la signora con cui sto parlando dice che ha appreso a farne 150 di tipi e forme diverse. Racconta che ha imparato una professione, che potrà proseguirla qualora la cooperativa dovesse chiudere, e insegnarla ai suoi figli ove necessario. Ha quindi un’assicurazione contro la disoccupazione e un capitale da dare ai propri figli, senza parlare di una stima di sé e una determinazione da fare invidia; e tutto ciò non lo cattura il dato “quanto è il salario” di quella persona.

Il punto di fondo è che si presume che la realtà sia lineare e semplice, ma il cambiamento inteso come impatto sociale è complesso per natura, assume forme inaspettate, è “emergente”. Invece strumenti come la valutazione d’impatto, presuppongono che si sappia molto a priori, e per quello si prestano bene a misurare cambiamenti immediati e cruciali, ad esempio la resa di sementi più resistenti alla siccità. In altri casi, soprattutto quelli che hanno a che fare con la crescita delle persone, bisogna fare molta attenzione a non arrivare alla conclusione che le cose difficili da misurare siano per questo meno importanti, o che l’unica forma per dare prova del cambiamento sia quella matematica.

Si può raccontare, più che misurare, il cambiamento sociale?

Va ricordato che ci sono anche altri strumenti, che da circa vent’anni vengono sperimentati nella cooperazione; la lista sarebbe lunga, ma si può fare l’esempio del Most Significant Change, basato sulla raccolta delle storie di successo, e della condivisione dei motivi per cui quelle storie vengono ritenute di successo (questa seconda parte viene spesso omessa ma è cruciale per far nascere quella discussione che è il fulcro della MSC). C’è una differenza enorme tra “misurare” e “raccontare”, e lo scarto tra le due cose è cruciale, perché raccontare il cambiamento è qualcosa che ben si presta a cogliere delle sfumature che però risultano essere cruciali. Affiancare alle tecniche di M&V più convenzionali delle metodologie più innovative e flessibili può permettere ad ogni organizzazione di trovare quel mix che meglio combacia con la propria traiettoria, capacità e sensibilità. E quindi torniamo alla premessa iniziale: è importante trovare le forme di poter parlare di M&V in maniera inclusiva, coinvolgendo tutte le anime di una organizzazione. Secondo, se la valutazione non facilita il resto del lavoro di una associazione, allora non la si sta utilizzando efficacemente. Il consiglio è di sperimentare diverse metodologie, con delle iniziative pilota, senza abbandonare altre tecniche (ognuna ha pregi e difetti), ma cercando di trovare il mix più affine alle corde della vostra organizzazione nel suo insieme.