Un cooperation compact per continuare la risalita

Data 14.02.2018

La cooperazione ha ormai sfondato
tutte le barriere imposte da una sua
riduzione buonista-volontaristica e
si è imposta come strumento insostituibile di
politica estera. Non si può tornare indietro, ma
 neppure fermarsi. Lo si comprende leggendo 
nel loro insieme i 17 obiettivi globali di sviluppo
sostenibile dell’Agenda 2030 dell’Onu: il nostro 
sviluppo non è più pensabile sganciato da
quello degli altri Paesi.

Riandiamo all’ultimo
 quinquennio: l’attesa legge 125/2014 sulla cooperazione internazionale ha permesso al nostro Paese di competere globalmente con gli altri soggetti della cooperazione, fino ai luoghi dove si consumano crisi croniche (come Siria, Iraq, Sud Sudan...), grazie all’introduzione di nuovi strumenti quali la costituzione dell’Agenzia, il coinvolgimento del settore privato, la Cassa depositi e prestiti come banca per lo sviluppo, il Consiglio Nazionale della Cooperazione. Dopo anni di una certa “dimenticanza”, inoltre, i governi italiani Renzi e Gentiloni sono tornati in Africa per cercare partnership e il nostro “sistema” Paese è riuscito a dare un contributo fondamentale alla definizione del Migration Compact e dell’European Investment Plan. E ora, cosa chiedere a chi verrà?

Azzardiamo alcune proposte molto concrete che nascono all’interno della nostra esperienza di oltre 45 anni di lavoro sia sul terreno in Africa, Asia e America Latina, sia negli uffici dove si disegnano bandi e budget. Potremmo chiamarlo “piccolo compact per la cooperazione”.

1. Considerando che il futuro della cooperazione dipende in larga parte dall’accesso ai fondi Ue e quindi dalla capacità di avere un posto ai tavoli in cui vengono stabilite
le priorità, le politiche e le modalità di stanziamento di questi fondi, è fondamentale rinforzare la presenza italiana a Bruxelles. Come? Per esempio aprendo un ufficio dell’Agenzia presso la Rappresentanza con uno
staff adeguato (basti considerare che la Giz, l’agenzia
della cooperazione tedesca, ha un ufficio in Belgio con
50 funzionari); oppure affidando a un esponente della Rappresentanza l’incarico di seguire i temi di cooperazione coordinandosi con l’Agenzia, la Direzione generale della cooperazione allo sviluppo, oppure ancora coinvolgendo il Consiglio nazionale nei comitati Fes, Eni della Commissione europea.

2. Destinare tutto l’8xmille a gestione statale a progetti di cooperazione (sono quasi 150 milioni all’anno). Oggi solo il 25% è destinato a progetti di cooperazione, e non sempre va in porto.

3. Creare una regia unica per la gestione dei fondi che altri ministeri spendono per la cooperazione. Al momento c’è solo una tabella con gli importi, ma su come e quali obiettivi debbano essere spesi, non c’è alcun coordinamento effettivo.

4. Oggi 2/3 dei fondi della cooperazione sono spesi dal ministero dell’Economia e delle Finanze) con trasferimenti alla Ue e alle Banche multilaterali. Sarebbe invece fondamentale che anche il ministero degli Esteri e della Cooperazione internazionale avesse voce in capitolo: significherebbe intervenire sugli obiettivi armonizzandoli con quelli delle politiche di sviluppo. Ci vorrebbe quindi un coordinamento molto più stretto dei direttori esecutivi italiani presso queste istituzioni con il Maeci.