di Alessandra Muglia - fotografie di Stefano Schirato - video di Aldo Gianfrate
Dopo un anno e mezzo passato nella boscaglia ostaggio dei ribelli, Adelo era un fantasma di se stessa. «Avevo 15 anni quando mi rapirono, ma avevo già due figli, uno di appena un mese. Li lasciai a mia madre. Mi hanno costretto a uccidere e torturare la mia gente. Mi hanno fatto sentire peggiore di loro, una maledetta. Mi hanno stuprata, mi è venuto l’Hiv. Non avrei mai pensato di sopravvivere a tutto questo. E tantomeno di vedere un giorno i nostri ragazzi diplomarsi e lasciare queste capanne per andare all’università». E’ quasi mezzogiorno, il sole è caldo sopra la distesa di lamiere e terra rossa adagiata sulla collina di Kireka, sobborgo di Kampala.
Accenna un sorriso Adelo, poi diventata Ketty, Ketty Adong. «Ho cambiato nome una volta fuggita dalla foresta» dice seduta su una panca nella sua baracca di mattoni nel cuore dell'«Acholi slum». Una bidonville senz’acqua corrente, fogne e abitata per lo più da donne di etnia acholi, la stessa dei ribelli, la più massacrata durante la guerra civile che per quasi un ventennio ha insanguinato le loro terre: gli insorti le rapivano per arruolarle e farle loro, i governativi le stipavano in campi disumani prima di distruggere i loro villaggi a caccia dei miliziani. Donne arrivate sfinite dal nord, dove infuriavano i combattimenti, hanno trovato rifugio in questa collina che affaccia su un’immensa cava di pietra. Ad accoglierle Rose Busingye, infermiera ugandese, che dispensa cure e attenzioni con il suo International Meeting Point, una ong partner locale della Fondazione Avsi. Sguardo magnetico, qui è venerata come una madre Teresa laica: è la persona che ha «liberato» queste donne dal peso di esperienze disumane, come cantano loro stesse in una specie di show di benvenuto. Donne che hanno visto l’inferno e ora lo mettono in scena, ci danzano sopra, si lasciano trascinare e trascinano al ritmo di tamburi e calebasse. Un’esplosione di vitalità e entusiasmo che non ti aspetti. «All'inizio volevano lasciarsi morire – dice Rose in italiano (ha studiato a Varese) – non volevano curarsi, rivendevano gli antiretrovirali che distribuivamo».
Potevano soltanto rompere pietre per sopravvivere: 50 chili di ghiaia per l’equivalente di 70 centesimi in euro. E un giorno intero a spaccarsi la schiena non sempre basta a portarseli a casa. Uno sforzo bestiale per chiunque, un massacro per queste donne con l’Hiv o con già con la malattia conclamata. Ma l’Acholi slum oggi è anche altro. Ketty, dopo aver raccontato di quando era Adelo, si alza, apre la porta e indica con orgoglio un ragazzone là fuori. Ci viene incontro Charles Carron, jeans, maglietta e occhioni neri profondi. E’ il suo figlio maggiore, ha 18 anni e si è diplomato in un istituto superiore molto particolare: lo ha costruito lei stessa insieme alle altre donne di Rose.
«Noi qui ci siamo sentite guardate oltre le nostre miserie e siamo rinate, volevamo lo stesso per i nostri ragazzi» interviene Doreen Angoon, 52 anni e 5 figli, anche lei originaria del Nord, della città di Gulu, e approdata qui dopo essere stata rapita dai ribelli di Kony. «Nelle altre scuole insultavano i nostri figli. “Tua madre ha l’Hiv” li schernivano, a volte pure gli insegnanti. Per questo ci siamo dette: “dobbiamo costruirci la nostra scuola”. E ci siamo riuscite». Hanno iniziato, nel 2010, a creare collane in carta colorata riciclata - striscioline arrotolate come perline e poi impermeabilizzate con lo smalto - ne hanno vendute 48mila, soprattutto grazie alla rete di Avsi all’estero. «Con la nostra ghiaia abbiamo fatto i pavimenti, eretto muri» aggiunge fiera Angon.
Nel 2012 l’inaugurazione: la scuola è un moderno edificio color mango dall’altra parte della collina, lungo Kireka road. Laboratori all’avanguardia, ampie aule con begl’arredi in legno, bagni con acqua corrente, alle pareti riproduzioni de «Il seminatore al tramonto» e «Primi passi» di Van Gogh e frasi del tipo «teaching is the adult way of learning».
Lo slum sembra lontano anni luce. Tanti ci arrivano dopo oltre un’ora di cammino e ci restano fino a sera per sfruttare la luce che a casa scarseggia. Dentro 450 studenti, ragazze e ragazzi insieme, 45 per classe, la metà rispetto ai 90 della media nazionale. A sette anni dalla nascita, è tempo di bilanci. «Dal 2014 hanno preso la maturità in 156, di questi 78 stanno frequentando l’università - spiega Matteo Severgnini, consigliere educativo -. Gli altri non sono riusciti ad accedervi perché non erano in grado di pagare le tasse». Neanche se lavorano nella cava tutti i weekend, come fanno a piedi nudi molti allievi, dalle elementari alle superiori, per riuscire a pagare il contributo per il materiale scolastico. Le tasse scolastiche sono coperte per 352 alunni dello slum da Avsi con il sostegno a distanza. Altri 100 studenti invece, di famiglie (relativamente) benestanti, provvedono da soli. L’istituto è frequentato anche da ragazzi che vivono fuori dalla baraccopoli, ormai riconosciuto come scuola di eccellenza. «Quest’anno siamo entrati nella top 100 delle migliori scuole dell’Uganda – 76esimi su 1592 – in base ai risultati ottenuti all’esame finale. Un grande risultato: nessuno se lo aspettava da un istituto che accoglie ragazzini dalle zone più povere della città e dove è vietato picchiare per insegnare». Un metodo innovativo rispetto alle altre dove vale il detto «spare the rod and spoil the child» (se non usi la bacchetta vizi il bambino). «Talmente apprezzato dagli allievi che l’80% dei 78 universitari dello slum, studia pedagogia perché vuole insegnare» dice Severgnini. La rivoluzione dell’istruzione (e di una società) parte da qui