Sud Sudan: stanchi della guerra, bisognosi di uno vero sviluppo

Data 09.01.2014
Sud Sudan AVSI By Anna Sambo

A Tgcom24 Anna Sambo, responsabile progetti AVSI in Sud Sudan, e Giampaolo Silvestri, Segretario Generale della Fondazione, raccontano la difficile situazione del paese.

  

Da Tgcom24 di Alfredo Macchi

“Le sparatorie sembravano non finire mai. Poi c'erano esplosioni fortissime come quando un carro armato ha distrutto la casa del vice presidente”: ha vissuto momenti difficili Anna Sambo che si trovava a Juba, capitale del Sud Sudan, nel momento in cui è esplosa una nuova guerra tra diverse fazioni armate. Lei, come altri operatori umanitari italiani, sono stati evacuati in tutta fretta con un ponte aereo militare organizzato dall'Unità di crisi della Farnesina.

Anna Sambo ha 36 anni ed è milanese. Da diversi mesi in Sud Sudan era la coordinatrice dei progetti dell'associazione Avsi ai quali lavorava con altri 8 italiani e un centinaio di locali.

Anna, qual è stato il momento più difficile?
“Sicuramente il giorno prima dell'evacuazione. I combattimenti si erano placati ma a Juba arrivavano voci incontrollate di soldati che stavano scendendo dalle montagne per prendere la città. C'era il timore di una pulizia etnica e chi poteva si rifugiava nelle basi delle Nazioni Unite. Temevamo chiudessero l'aeroporto, le linee telefoniche non funzionavano”.

Come è avvenuta l'evacuazione?
“Eravamo in stretto contatto con Avsi a Roma e con l'ambasciata italiana ad Addis Abeba. Ci hanno informato del ponte aereo e noi all'alba abbiamo organizzato un convoglio. Era la prima volta che uscivamo dal nostro compound dove eravamo rimasti chiusi dall'inizio degli scontri. Una parte del personale è andato in Uganda via terra, noi siamo andati all'aeroporto”

Cosa hai visto per strada?
“Era pieno di soldati e c'erano molti posti di blocco. Ho visto per la prima volta anche molte donne armate e in divisa. Ma tutto è filato liscio fino all'aeroporto”

Come è cominciato tutto?
“Eravamo a cena e parlavamo di come le cose si stessero mettendo bene in Sud Sudan. Ci ha chiamato un collaboratore dicendo che sulle montagne erano cominciato dei combattimenti. Poco dopo anche a Juba nel cuore della notte abbiamo sentito spari ed esplosioni. In cielo c'erano lampi di luce. Al mattino le sparatorie sono diventate intensissime con colpi di mortaio sempre più vicini”.

Avete capito cosa è successo?
“La violenza è stata inaspettata perché l'atmosfera era tranquilla nonostante tutti girassero con le armi dopo gli anni della guerra con il Sudan fino al referendum che ha sancito la nascita del nuovo stato. Le prime notizie parlavano di uno scontro tra diverse fazioni dell'esercito e la guardia presidenziale. Il presidente è apparso in tv in divisa militare e ha parlato di tentativo di colpo di Stato”.

Si parla di possibile pulizia etnica, avete avuto segnali in questa direzione?
“C'erano voci che i soldati cercassero gli appartenenti alle diverse tribù. Ci sono i Nuer, agricoltori stanziali, che sostengono l'ex vicepresidente Riech Machar e i rivali Dinka, pastori nomadi che sostengono il presidente Salva Kiir. In realtà la convivenza tra le due etnie era tranquilla. I nostri collaboratori che appartenevano ad entrambe al massimo si prendevano in giro tra loro per le diverse origini”

Che progetti avete in Sud Sudan?
“Abbiamo tre basi, a Juba, Torit e Isoche. Un progetto sanitario che prevede visite mediche e distribuzione di farmaci nei villaggi più remoti. E un progetto educativo con il Ministero degli Esteri mirato soprattutto alla formazione di insegnanti in particolare per le scuole elementari”.

Che previsioni puoi fare per il Sud Sudan?
“Era un paese già disastrato, uscito da una lunga guerra e con povertà altissima. In giro ci sono tante armi. Le ultime notizie dicono che si combatte sulle montagne e si parla soprattutto dei pozzi petroliferi. Il timore è che non si tratti di uno scontro mirato a qualcosa, con un obiettivo definito, ma che la situazione possa sfuggire ad ogni controllo”.

 

20 dicembre 2013

Da La Stampa di Giordano Stabile

Anna Sambo, cooperante AVSI in Sud Sudan, rientrata da Giuba racconta: «Decine di migliaia rifugiati nei compound»

“Per due notti ci hanno tenuti svegli le cannonate e le raffiche di mitra ma abbiamo capito quanto grave fosse la situazione solo quanto abbiamo visto, la mattina, il terrore sulle facce dei nostri colleghi sud sudanesi. Parlavano di rastrellamenti casa per casa, di soldati che separavano i nuer dai dinka, di camion carichi di cadaveri…”

Anna Sambo è una dei 34 cooperanti italiani che sono rientrati questa mattina dalla capitale del Sud Sudan, Giuba, a Roma, con un volo messo a disposizione dalla Farnesina. Con altri sei colleghi lavorava al centro della Fondazione Avsi, una ong che lavora a progetti aiuto alla popolazione dei villaggi, soprattutto in campo sanitario. Da Giuba sono stati evacuati gran parte dei corpi diplomatici occidentali, e all'aeroporto è “un continuo atterrare e decollare”, anche di aerei militari che portano i rinforzi dell'Onu nella base assediata nello Stato del Jonglei, dove ora si concentra il grosso dei combattimenti.

Qual è stato il momento più difficile?
“Gli scontri sono cominciati domenica ma nella notte fra martedì e mercoledì siamo stati svegliati da un fragore tremendo. Il compound tremava. Poi ci hanno detto che erano i carri armati del presidente Mayardit che prendevano a cannonate la residenza del rivale Machar, che peraltro era già scappato da tempo”.

La gente locale come ha reagito, ci sono segni di pulizia etnica?
“A decine di migliaia cercano rifugio nei compound, enormi, dell'Onu, che sono il posto più sicuro a Giuba e anche quello più facilmente raggiungibile dalle zone dei combattementi. Dal compound dove eravamo chiusi per ragioni di sicurezza non abbiamo potuto verificare i racconti. L'impressione è che quello che è cominciato come uno scontro politico sta diventando etnico, o potrebbe diventarlo molto facilmente. Ancor più nelle province remote, dove i soldati Onu non ci sono”.

Voi dell'Avsi avete centri anche nelle province?
“Non nello stato di Jonglei ma in quello confinante di East Equatoria. I nostri colleghi sono stati evacuati di là attraverso l'Uganda, che è più vicino della capitale Giuba. Ma quando cominciano gli scontri fra nuer e dinka nello Jonglei, l'East Equatoria viene di solito coinvolto, anche la gente da là ci dice che non vuole saperne. Siamo molto preoccupati”

C'erano state avvisaglie?
“Il 27 luglio, quando Mayardit aveva “licenziato” il suo vice Macher, dall'Onu ci avevano detto di preparare un piano di evacuazione. Ma non era successo niente. Nei giorni scorsi nessuno a notato nulla di strano, o più soldati nelle strade. Credo che questa esplosione abbia preso tutti alla sprovvista”

19 dicembre 2013

Dopo i violenti scontri dei giorni scorsi si aggrava la situazione umanitaria. La Farnesina procede all'evacuazione dei nostri connazionali. Trasferito oltre confine anche il personale AVSI delle sedi di Torit, Isohe e Juba.

Nel Paese, intanto, si estende il conflitto tra diverse fazioni dell'esercito. A Isohe, località del Sud Sudan dove sono localizzati e seguiti i bambini attraverso il Sostegno a Distanza per ora la situazione è tranquilla, non ci sono scontri e pertanto i 450 bambini sostenuti stanno bene.

Un velivolo dell'Aeronautica militare proveniente dal Sud Sudan è atterrato alle 13 di venerdì 20 a Ciampino con a bordo i cittadini italiani e europei evacuati dal Paese. L'operazione è stata coordinata da funzionari dell'Unità di Crisi della Farnesina, che si sono recati appositamente a Juba, la capitale.

A bordo 34 cooperanti italiani provenienti da Juba. Tra loro, anche Anna Sambo, responsabile AVSI in Sud Sudan. "Negli ultimi due giorni - ha riferito Anna Sambo - ci sono stati spari ripetuti, si sono visti i carri armati in città, la popolazione era molto spaventata anche se noi non abbiamo corso pericoli diretti. Non sappiamo che cosa potrà succedere nei prossimi giorni".

Nei giorni scorsi aveva raccontato le esplosioni dovute agli scontri nella Capitale dalla sua base a Juba: “Abbiamo cominciato a sentire i primi spari intorno alle 23.30 del 15 dicembre. Il nostro collaboratore sud sudanese mi ha chiamato per dirmi che c'erano degli scontri sul Jebel, la montagna alle porte di Juba. Poi le esplosioni si sono spostate anche in centro, vicini al compound in cui dormiamo e i colpi di artiglieria pesante mi hanno svegliata nella notte. Stiamo bene, per fortuna". 

Anche tutto il personale delle sedi AVSI di Torit, Isohe e della capitale Juba è stato evacuato e si trova ora oltreconfine.