Il racconto di Alfredo Macchi, inviato di News Mediaset, che ha realizzato un reportage sugli orrori del conflitto in Sud Sudan. Insieme ad alcuni medici e alla responsabile dei progetti di AVSI, l'inviato si è recato nelle comunità più lontane per documentare il lavoro al fianco delle popolazioni: «Ho visitato tanti paesi africani poveri ma non ho mai sperimentato niente del genere».
La terza emergenza mondiale dopo Siria e Centrafrica. Così l'Onu considera il conflitto civile in corso nello Stato più giovane del pianeta. "Eppure da noi sui giornali è davvero difficile trovare anche solo una riga su quello che sta accadendo", racconta Alfredo Macchi, vicecaporedattore a TgCom24, quando introduce il suo reportage, andato in onda il 23 aprile su Rete 4 e Tgcom24, da una terra in cui "l'odio etnico rischia da un momento all'altro di far degenerare le violenze, che hanno già causato 16 mila morti".
Leggi l'articolo di Alfredo Macchi dal suo Blog Zone di Crisi:
di Alfredo Macchi
“Se usciamo da qui ci uccidono tutti, uomini, donne e bambini” mi spiega con gli occhi grandi della paura un ragazzo. Sulla fronte ha le tipiche cicatrici segno di riconoscimento delle tribù Nuer ed è terrorizzato come le decine di migliaia che hanno cercato scampo qui nella base delle Nazioni Unite a Juba, capitale di uno sfortunato Sud Sudan. Venerdì un altro campo dell'Onu a Bor pieno di rifugiati è stato attaccato con decine di morti. Quello che è in corso in questa terra d'Africa dimenticata somiglia sempre più ad un genocidio che nessuno sembra in grado di fermare. Questo il racconto del viaggio assieme ai volontari dell'Avsi in un Sud Sudan sull'orlo della catastrofe.
Il Sud Sudan è lo stato più giovane del mondo, nero e cristiano, nato appena tra anni fa dopo decenni di guerra per staccarsi dal nord, arabo e islamico. Era il paese della speranza. Ora è piombato di nuovo nella spirale della guerra civile e vicinissimo a quello che sembra un vero e proprio genocidio. Il 16 dicembre scorso a seguito dello scontro tra il presidente Salva Kiir di etnia Dinka e il vice presidente Rieck Machar, appartenente alla minoranza Nuer, i membri di questa minoranza sono stati attaccati: famiglie uccise in casa, donne stuprate, bambini ammazzati in strada. “Ho visto un ragazzino che urlava non uccidetemi, non voglio morire vi prego, sono solo uno studente, non ho fatto nulla di male! Ma gli hanno sparato lo stesso” mi racconta un altro rifugiato nelle basi Onu. Il quartiere di Gudele a Juba dove abitavano i Nuer adesso è un quartiere fantasma, vietato alla stampa, con le case abbandonate e saccheggiate, dove come spettri si aggirano soltanto soldati.
“Qui siamo ad un passo dal genocidio” mi spiega padre Daniele Moschetti, superiore provinciale dei Comboninani, “combattono anche ragazzini arruolati a forza”. Padre Raimundo, brasiliano, mi racconta i 18 giorni vissuti nella boscaglia dopo che la sua missione a nord è stata attaccata e saccheggiata".
Diecimila morti, oltre centomila profughi che cercano scampo dietro i cancelli delle basi ONU e vivono in condizioni disperate (capanne fatte di cartone e teli di plastica), un milione gli sfollati, quasi 4 milioni sono alla fame. L'Onu parla di peggior carestia in Africa dagli anni ‘80.
“A causa dei combattimenti è diventato estremamente difficile portare gli aiuti alle popolazioni” ci racconta Anna Sambo, responsabile del Sud Sudan di Avsi, in questo paese da tempo “Migliaia di bambini non vanno più a scuola. Così muore ogni speranza per il futuro”. Con Anna e il collega Pablo Castellani raggiungiamo i villaggi più sperduti lontano dalla capitale. Una jeep autoambulanza e ore di piste sterrate per raggiungere chi è disperato.
In un villaggio mi colpiscono due bimbe, con i vestiti a festa. Sono talmente denutrite che hanno lo sguardo perso e non reagiscono più agli stimoli. I medici decidono di trasportare all'ospedale una piccola di 18 mesi allo stremo. “Rischia di morire da un momento all'altro per disidratazione e diarrea” mi spiega Maria Gaudenzi, responsabile dell'area di Ishoe di Avsi. L'ambulanza sfida pioggia e fango. Quando rivediamo la bimba dopo alcune ore e le prime cure nell'ospedale di Isohe ci sorride. Si chiama Ilam Surprise, “Sorpresa”. Una piccola speranza. In un paese dove 20 anni dopo la tragedia del Ruanda nessuno sembra aver imparato nulla.