Storie di vite spiazzate

Data 10.03.2022

La Fondazione AVSI sta operando sui luoghi dell’emergenza umanitaria. Ecco il lavoro dietro le quinte che si sta facendo per gestire la risposta ai rifugiati, partendo dalla registrazione dei bisogni dei singoli.

Ti chiedi dove avrebbero potuto essere, alle 8 del mattino, anziché qui in questa stazione di confine tra Polonia e Ucraina con un neonato appeso al braccio, in coda a chiedere informazioni, o al bancone della Caritas per un caffè caldo.

Pensi a dove avrebbe potuto essere questa nonna, anziché seduta su uno sgabello con il berretto di lana calato sulla fronte, in un centro temporaneo di accoglienza; e dove avrebbe dovuto essere in questo istante una ragazzina chinata sui quaderni su una brandina allestita in una palestra trasformata in ostello.

Quando le vedi e riconosci in loro i tratti della rifugiata, lo sai che quello non è il loro posto, che sono state tutte sbalzate fuori dalla loro vita ordinaria.
Queste donne ucraine e i loro figli, anziché qui, in un paese straniero, con il minimo indispensabile costretto di fretta in un trolley, sarebbero state comode sul divano del soggiorno, o operose alla scrivania, in ufficio a trafficare con varie responsabilità, o al parco giochi con i bambini, o in classe a preparare l’esame di maturità, o in palestra, o al cinema con il fidanzato o a fare la spesa.

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Invece tutte queste rifugiate ucraine - perché dai confini sono potute uscire quasi solo donne con bambini - sono state cacciate via dal loro posto in un altrove impensabile. Avevano le loro cose da fare, ma sono tutte rimaste sospese, fino a data da destinarsi.
Alcune di loro sanno dove riparare, a casa di parenti o amici in paesi più o meno vicini; altre non hanno destinazione chiara e aspettano notizie dal fronte. Ma per ciascuna il tempo si è fatto indeterminato: nessuna sa quanto durerà questa vita fuori posto, spiazzata.

E l’indefinitezza di spazio e tempo è solo una delle ferite di chi scappa, e brucia quanto il desiderio di riprendersi la vita di prima.
È con queste domande e con questi bisogni che fa i conti l’intervento umanitario che si sta costruendo ai confini con la Ucraina.
C’è un fermento di incontri informali e istituzionali, di piani e di budget, che investono soggetti diversi, ong internazionali, partner locali, istituzioni del paese, municipalità regioni e governi, organizzazioni di volontariato dietro ad ogni programma e progetto che si prepara e mette in atto per venire in loro aiuto.

Guarda ai numeri, a quante persone ogni giorno attraversano il confine, a quanti fondi sono disponibili, quanti luoghi e spazi sono pronti ad accoglierli, quanti volontari generosi sono impiegabili.
Ma soprattutto registra bisogni: inizia qui la risposta umanitaria, dai bisogni rilevati e misurati.
Hanno bisogno di un tetto? Di coperte, cibo, medicine, vestiti, sostegno psicologico, interpreti per poter farsi capire da chi parla un’altra lingua, di mediazione per l’inserimento a scuola dei piccoli? Di beni materiali o immateriali? E per quanto tempo, un giorno, una settimana o mesi?
È un mestiere fatto di domande, disciplina e creatività, richiede altissime competenze tecniche (si devono descrivere al dettaglio le attività da fare e assegnare budget adeguati e sostenibili), ma altrettanta ingegnosità artigianale: si deve ascoltare, ascoltare molto e osservare, per combinare pezzi diversi, risorse umane ed economiche con i bisogni.

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Chi scrive e realizza interventi in emergenza deve sincronizzare ritmi diversi di movimenti di persone (mai riducibili a numeri) e incertezze di contesto. Con la responsabilità di non poter sprecare neppure un centesimo dei fondi donati da singole persone o famiglie o imprese o istituzioni pubbliche, e di non poter trascurare nessuna richiesta che viene da chi è vittima di una guerra.
Nei tempi di guerra o di crisi questo lavoro si sviluppa nell’ombra, perché c’è altro che fa più notizia.
Ma è quanto permette di alzare la testa abbastanza per vedere oltre.

Di sperare che quella trama di normalità, da cui le rifugiate ucraine sono state espulse in un giorno di fine febbraio, possa ripristinarsi in una primavera non troppo lontana.

Foto di Francesco Pistilli, Valerio Muscella