Non si può osare scrivere di Damasco dopo solo 48 ore trascorse per le sue strade in cerca degli sfregi dei mortai. Sarebbe da spudorati. Damasco è troppo. Una signora capitale del Medio Oriente, di un Paese sbriciolato da una guerra combattuta in casa sua da potenze altre che si sfidano al prezzo del sangue di centinaia di migliaia di persone. Un conflitto che ha cacciato di casa milioni di persone, “displaced” (intraducibile) dentro e fuori i confini di Siria.
Ma se non si può raccontare lei, la città, si può provare a misurare la distanza tra lei e noi qui.
Si misura nei rumori. A Damasco un boato che spacca un cielo azzurro e senza una nuvola, nel mezzo di un pomeriggio feriale di ottobre, quando tutti sono chini su faccende ordinarie, la gente al mercato si sfiora tra i banchi, non è un tuono, come potrebbe essere qui, e neppure l’annuncio di un temporale imprevisto. È una cannonata. C’è dietro qualcuno che ha dato l’ordine di sparare. Un comando che si ripete speculare, dalla parte opposta e ammazza, di nuovo.
Un altro strumento di misurazione di distanza sono le passeggiate. Cammini con uno di Damasco, di professione guida turistica, al momento impiegato come autista, con figli a lavorare e studiare in Russia; come si fa verso sera, per staccare da una giornata di lavoro, procedi sui marciapiedi che costeggiano gelaterie, negozi o uffici, e ti senti raccontare: “Ecco qui camminavo l’anno scorso e a un certo punto è arrivato un mortaio. C’era sangue dappertutto, ma la gente ha continuato a mangiare il gelato mentre arrivavano i soccorsi; ecco là invece sono morte due ragazze per una bomba, forse ci sono dei fiori; ecco qui davanti al portone di casa, rientrando, ho trovato le schegge di un mortaio. Ce n’era una di mezzo chilo che ho conservato. Guarda qui le fessure che ha lasciato un’altra scheggia nella cornice della finestra: più piccole sono, più diventano micidiali perché penetrano nella carne e colpiscono gli organi vitali. Certo qui sai quando esci di casa, non sai se ci torni (e sorride)”. Ad ogni svolta, calpesti depositi di memorie di attacchi.
Anche le conversazioni con i funzionari di organizzazioni internazionali sono un buon test. Cerchi una mappa per capire dove va la Siria, ti perdi nel tentativo di decifrare se una buona volta abbia preso la piega definitiva, quando arriva la sentenza dell’esperto: “Io dico che in base ai dati che ho, forse vedremo l’inizio della fase finale tra un anno. Ma come ti dico io questo, arriva tra un attimo un altro che sostiene esattamente l’opposto”. Ed è una profezia veritiera. Ti siedi a un altro tavolo, con un altro analista e con un’altra interpretazione.
Altro indicatore è il rapporto spazio-tempo. Da Beirut (dove si atterra ancora per raggiungere la Siria, perché l’aeroporto damasceno è ancora inaccessibile) a Damasco ci sono 110 chilometri circa, ma per le soste alle frontiere, le code per i visti, i controlli, quei chilometri è come se raddoppiassero.
Il confine ti porge un altro metro di misura: il roaming. Una volta di là, in Siria, il cellulare muore. Nessun segnale di connessione, spariscono tutte le icone famigliari. Nessuna compagnia telefonica ti invia messaggio di benvenuto come accade nei Paesi più remoti, perfino in Burundi. Mentre l’horror vacui afferra in pochi secondi il soggetto social-dipendente, che annaspa alla ricerca di un servizio wifi, il silenzio del cellulare è molto loquace, dice molto di questo Paese ora.
C’è pure l’indicatore dell’orgoglio damasceno: “Durante tutti gli anni di guerra – sostiene un esperto di media – qui al mercato non è mai mancato nessun tipo di bene. Noi non ci arrendiamo, siamo in grado di ripartire sempre. Nessun dolore e nessun colpo ci finiscono”. Che poi nel resto del Paese non sia come nella capitale, è un’altra storia.
E poi l’insonnia, che a Damasco ha ragioni “esterne”: una signora, ormai oltre la sessantina, già impiegata nella biblioteca nazionale, oggi segretaria in un ufficio privato, dopo che la sua casa è stata colpita da un missile, si è trasferita in un altro quartiere, fuori dal centro, ma ogni notte, ancora, sente i rumori dei mortai. A lungo, troppo a lungo. La svegliano e l’assillano. Da mesi, da anni. Incubi materiali come pioggia di bombe. Eppure poi la mattina si alza e scende per tornare fedele alla sua scrivania.
Infine gli indicatori più evidenti, i numeri: di chi è rimasto senza casa, del costo della vita, dell’allarme sanità. A settembre 2017 sono 5,2 milioni i rifugiati all’estero (torneranno mai?), 6,3 milioni gli sfollati rimasti nel Paese, 13,5 milioni le persone in situazione di vulnerabilità. Il costo del denaro e della vita è cresciuto in modo disperante: per cambiare un dollaro servivano nel 2011 46 syp, oggi ne servono 510; uno stipendio è diventato acqua fresca.
Dice il nunzio a Damasco, il cardinal Zenari, che oggi si muore in Siria per la mancanza di cure più che per le bombe: 100.000 persone non ricevono farmaci salvavita, 25.000 non sono in grado di accedere ai servizi medici di base, 13.000 donne non ricevono cure durante la gravidanza e il parto, 5100 persone con gravi traumi di guerra non possono essere aiutate, 1500 i feriti e 1500 amputati che non ricevono cure (dati OCHA). Per rispondere a questo bisogno è partito il progetto di AVSI “Ospedali aperti“, aiuto concreto nel deposito di tanta retorica sulla guerra.
E accade qui. In un ospedale. Dopo l’esercizio cerebrale condensato di misurazione di distanze (non è rassicurante?), davanti al letto di chi sta male, realizzi che in quel letto potresti esserci tu, e insieme che mancano le medicine (anche a causa dell’embargo), che i medici più bravi semplicemente non ci sono, perché emigrati all’estero. Allora lì avverti che saltano le misure, gli indicatori, i confini, le dogane… Damasco è entrata in circolo nel sangue, Damasco si avvicina, è qui.