Da Avvenire
Di Luca Geronico
«Poche volte chiedo i particolari, come si sono procurati quelle ferite o quando si sono manifestati le prime piaghe. Si fanno solo le domande necessarie, quelle per curarli», spiega con voce delicata suor Alessandra Fumagalli. È la carne della Siria, sfigurata e ancora sanguinante, che giunge, mese per mese, all'ospedale di Karak. Ogni giorno, dopo uno smistamento negli uffici della Caritas del vicino villaggio, la comunità delle comboniane apre le porte a un popolo di senza terra e di senza volto.
Nel cuore della Giordania meridionale, 150 chilometri da Amman e 200 dal confine siriano, l'ondata dei profughi è forse meno impetuosa, ma con un uguale carico di dolore. «Arrivano con i mezzi pubblici, attraverso una catena di solidarietà». Fuggono dalla guerra civile oltre il confine, ma anche dalle tendopoli disumane. Donne incinte, molti bambini a volte abbandonati a sé stessi, anziani, uomini feriti. Per i più fortunati l'unico riparo, nel deserto giordano, sono delle casupole in affitto che si dividono due o tre famiglie.
«Siamo nella zona più povera del Paese e siamo l'unica presenza cristiana». Una missione semplice, quanto essenziale: rispondere ai bisogni sanitari della regione. Sono 30mila i profughi giunti in qualche maniera nel cuore della Giordania e suor Alessandra, con le altre 4 comboniane italiane e una ottantina di sanitari, impiegati, tecnici – tutti giordani e un iracheno – nei primi tre mesi dell'anno ha ricoverato 1.170. Provengono in gran parte da Aleppo e Homs.
«Appena arrivata qui, anni fa, vi erano i profughi iracheni». Fuggivano dal terrorismo, dagli attentati, dagli stenti: «Ma ora è toccare con mano quanto può fare male una guerra. Che fare davanti a quel ragazzo di neanche 18 anni incapace di parlare, impossibilitato a mangiare perché una granata gli ha asportato la mandibola?». È il servizio alla sofferenza, che con molta povertà e nella povertà si cerca comunque di portare: «C'è ancora una parte di umanità che crede nell'umanità». Una solidarietà che non conosce barriere di nazionalità o di religione: «L'altro giorno dei musulmani mi hanno regalato dei fiori per la nostra cappella: sapevano che sono giorni di festa per noi cristiani».
È Pasqua anche a Karak: «Qui è tutto povertà, è anche una povertà ecclesiale. Noi cristiani siamo in tutto un centinaio a celebrare la Pasqua, con molta semplicità. Non mi dispiacerebbe essere stata al Colosseo a Roma, per la via crucis del Venerdì santo. Ma in questi anni mi sembra di essermi avvicinata di più alla povertà della croce». Nulla di esemplare, nulla da insegnare dalla “periferia del mondo” a chi è nella Vecchia Europa. «Non ci sono persone che non hanno periferie dentro di sé e vicino a sé. Si è in periferia quando si vede un bisogno e si sente di non poterlo soccorrere». La preoccupazione, semmai, è di come poter continuare a farlo quando l'emergenza, l'attenzione si sarà spenta.
«Una emergenza che non accenna a finire», conferma Chiara Nava, giovanissima operatrice di AVSI che lavora nei progetti per i profughi siriani in Libano e in Giordania: nei primi mesi del 2014 ogni mese un incremento del 4%. «Quelli che scappano ora sono dei nulla tenenti, spesso fuoriusciti da villaggi circondati: fino a un anno fa erano famiglie con delle risorse, con cui riuscivano ad affittare una casa, programmare un futuro in un altro Paese».
Per questo, oltre a un programma per aiutare l'inserimento scolastico dei bambini profughi, l'AVSI ha pure messo in atto una distribuzione di kit di prima necessità non alimentare sul confine con il Libano: 10mila i profughi aiutati, di cui 6mila minori nel Paese dei cedri, 2mila in Giordania. «Costruire il dialogo, far recuperare la fiducia. Prima, anche con gli operatori, avevano reazioni violente: ora c'è accoglienza, ascolto reciproco». Relazioni, per fare di una folla ancora delle persone. La Pasqua, la risurrezione? «Quando queste persone che hanno perso tutto ti parlano della loro casa da ricostruire, del lavoro da far ripartire: riescono a pensare al futuro», rispondano concordi suor Alessandra Fumagalli e Chiara Nava.
Ma chi scappa racconta di un vero infernio che non vuole finire: suor Raghida, siriana che ora vive in Francia, ha raccontato a Radio Vaticana di cristiani crocefissi dai fondamentalisti perché si sono rifiutati di convertirsi all'islam, nei tre mesi in cui l'antico villaggio cristiano era in mano alle milizie jihadiste: «Nelle città o nei villaggi occupati dagli uomini armati – afferma suor Raghida – , i jihadisti e tutti i gruppi musulmani estremisti propongono ai cristiani la shahada (la professione di fede musulmana) oppure la morte». Ma nessuno vuole rinnegare la fede: quello che subiscono è un martirio disumano. «A Maalula hanno crocefisso due ragazzi perché non hanno voluto recitare la shahada» (la professione di fede musulmana). Uno è stato crocefisso davanti al padre «che poi è stato ucciso a sua volta». Ad Abra, periferia di Damasco, gli jihadisti appena entrati in città «hanno ucciso uomini, donne e bambini. E dopo il massacro, prendevano le teste per giocarci a calcio», conclude suor Raghida.
Chi può fugge, chi rimane sa di poter essere un inconsapevole bersaglio: restare può essere una estrema testimonianza di dedizione. Come padre Paolo dall'Oglio che passerà la Pasqua in prigionia: rapito a Raqqa lo scorso 28 luglio mentre tentava una difficile mediazione, si pensa sia ora detenuto dai qaedisti dello Stato islamico dell'Iraq e del Levante. Nessun contatto è stato finora stabilito con le autorità italiane.
Un altro gesuita, pochi giorni prima di essere ucciso da ignoti, il 7 aprile a Homs, nel centro della Siria, padre Frans van der Lugt, aveva scritto: «La carestia minaccia le nostre vite, ci mancano gli elementi base per sopravvivere: cibo e generi di prima necessità. Ma in qualche modo sopravviviamo, e continuiamo a spingere la vita più in là. Di più, facciamo esperienza della bontà di coloro che hanno bisogno. A volte, davanti alla porta, si trovano delle lenticchie e del bulgar. Quando siamo poveri e in difficoltà, allora riscopriamo la bontà degli esseri umani, quanto riceviamo dei nostri fratelli e sorelle». E poi concludeva: «Qui stiamo preparando per la Pasqua, riflettiamo sulla morte in croce che si trasforma nella resurrezione. Ci sentiamo come se vivessimo in una valle di ombre, ma possiamo vedere una luce in lontananza che ci guida verso la vita. Speriamo che la Siria possa presto risorgere... Andiamo avanti».
Siria, solo chi spera può resistere