di Anna Spena - Vita
La guerra non è finita. Alcune zone, come le periferie di Damasco, sono state liberate. In altre, come Idlib, cadono ancora le bombe. Il paese è raso al suolo ma senza aiuto esterno non si può ricominciare. «Le persone hanno bisogno di tutto. Insieme alla guerra militare c’è quella della sopravvivenza quotidiana, sicuramente meno eclatante ma altrettanto drammatica. La fiducia nel futuro è minata», dice Marco Perini, regional manager di Avsi, una delle poche ong rimaste in Siria.
Secondo l’analisi pubblicata da Care International, organizzazione umanitaria fondata negli Usa nel 1945, la Siria si conferma, per il terzo anni consecutivo, il Paese più pericoloso al mondo per gli operatori umanitari. La guerra civile siriana è iniziata nel 2011. Ha devastato l’intero paese e, ancora oggi, il conflitto non sembra fermarsi.
AVSI, ong italiana, ha iniziato a lavorare – non senza difficoltà – in Siria poco dopo l’inizio della guerra con uno staff di undici persone. La zona più critica, ad oggi, è la regione di Idlib, più di 600mila sono ora sfollati a seguito dei raid aerei russi e governativi e delle violenze del conflitto.
In questa zona non abbiamo ancora i permessi per lavorare. La guerra, che prima era totale e riguardava tutto il paese, ora si muove a macchia di leopardo. A Idlib, appunto, continua. In alcune zone come Damasco la situazione – che non è drammatica dal punto di vista militare – dal punto di vista sociale e umanitario è terribile.
Marco Perini, regional Manager di AVSI
Il paese non è stato distrutto solo dalle bombe ma anche dagli embarghi imposti dagli altri paesi che rendono le zone poverissime: aumentano così la povertà e la diffusione di fenomeni di microcriminalità. L’agenzia dell’Onu (dati 2016) ha stimato che i siriani coinvolti dall’emergenza umanitaria siano 13,5 milioni, 6 milioni dei quali bambini. La maggioranza (quasi 9 milioni di persone) vive in condizioni di insicurezza alimentare, non avendo accesso neppure a un’alimentazione di base.
Fondazione AVSI attualmente lavora su due tipologie di progetto: «Abbiamo coinvolto 600 famiglie che vivono nella zona rurale di Damasco. Diamo loro dei polli da allevare per creare delle piccole attività generatrici di guadagno e soddisfacimento alimentare proprio e semi e attrezzi agricoli per poter coltivare pezzi di terra che si sono salvati». Ma l’ong lavora anche su un altro fronte: «Si chiama “ospedali aperti”», spiega il regional manager di AVSI, «è partito alla fine del 2016 su iniziativa del Nunzio Apostolico in Siria insieme a Cor Unum e Fondazione Gemelli, al fine di potenziare le attività di 3 ospedali, due a Damasco ed uno ad Aleppo, non profit siriani. Un intervento che si è reso necessario di fronte a una crisi sanitaria senza eguali: quasi 11.5 milioni di persone, di cui il 40% bambini, non ricevono adeguate cure mediche; ad Aleppo le persone che non hanno accesso agli ospedali sono più di 2 milioni, a Damasco oltre 1 milione. Il sistema sanitario non può far fronte alla domanda di cure e le famiglie non riescono a pagare le spese sanitarie. Abbiamo garantito cure gratuite a 26mila persone. Oggi, in Siria, l’alternativa alla cura gratuita è sovente la non cura».
In Siria la guerra non è ancora finita. Ma anche in un paese raso al suolo bisogna reinventarsi la vita. Le conseguenze della guerra, infatti, non colpiscono i “signori della guerra”, ma sempre la povera gente. «».
Il problema in Siria è che ci si sente impotenti. Il bisogno è troppo grande, bisogna ricostruire tutto da zero. Ci vorranno anni e le risorse mancano. La Siria adesso è il paese delle donne e dei bambini e la ricostruzione è sulle loro spalle. Le persone hanno bisogno di tutto. Anche laddove si è smesso di combattere con le bombe, si continua a combattere la guerra della sopravvivenza. La fiducia nel futuro è minata
Marco Perini, regional Manager di AVSI