Sebbene la situazione sul terreno sembra in qualche modo stabilizzarsi, con la decisione presa ad Astana, in Kazakhstan, da Russia, Iran e Turchia di creare zone di “de-escalation” del conflitto, l’emergenza umanitaria soprattutto in Siria resta grave. Milioni di sfollati, centinaia di migliaia di migranti e di civili intrappolati nelle zone di combattimento. Dalla diplomazia non arriva alcuna risposta. Anzi… Di questi giorni la notizia che il prossimo round di colloqui di pace sulla Siria mediati da Iran, Turchia e Russia, in programma sempre nella capitale kazakha, a fine agosto con l’obiettivo di raggiungere un cessate-il-fuoco generale in Siria, è stato posticipato a metà settembre.
Chi cerca invece di dare risposte concrete ai bisogni della popolazione è l’Avsi Ong presente in tutto il mondo e anche in 4 Paesi della regione: Giordania, Libano, Siria e Iraq.
In Libano e Giordania il lavoro principale riguarda l’accoglienza e l’accompagnamento degli sfollati interni e si concretizza nella creazione di posti di lavoro, tirocini professionali e soprattutto educazione
spiega il responsabile dei progetti Avsi in Medio Oriente, Edoardo Tagliani
Nella Regione, Avsi conta “circa 130mila beneficiari diretti, di cui circa 75mila sul settore educazione e il resto su tirocini, sul ‘cash for work’ ovvero il lavoro giornaliero, che consiste nella creazione di fonti di reddito per lavori socialmente utili. In Iraq lavoriamo su progetti sanitari realizzando bagni e strutture igieniche. In Siria ci occupiamo anche di fornitura di acqua potabile”. Si tratta di numeri importanti ma che si perdono davanti “ai milioni di rifugiati e sfollati siriani e in parte iracheni. Impossibile stilare statistiche precise – denuncia il responsabile Avsi -. I numeri ufficiali sono molto datati perché, specie in Libano, che dopo la Turchia è il Paese che accoglie più rifugiati, le registrazioni ufficiali sono state stoppate da Unhcr, l’agenzia Onu per i rifugiati, su indicazione governativa nell’aprile del 2015. E gli arrivi nel Paese dei Cedri proseguono anche se – aggiunge –
si cominciano a vedere i primi ritorni”.
Per Tagliani, vari sono i fattori che spingono diverse famiglie siriane a fare rientro nelle loro terre:
Innanzitutto la ritirata di Isis e di altri miliziani dai territori prima controllati, poi le cosiddette zone di ‘de-escalation’ del conflitto che hanno abbassato il livello degli scontri e anche le spinte politiche in Libano. Nelle scorse settimane ministri libanesi si sono recati a Damasco per discutere dei ritorni nelle zone liberate
Edoardo Tagliani
Ciò che preoccupa maggiormente il responsabile Avsi sono le conseguenze che una crisi divenuta ormai “cronica” come quella siriana potranno avere sul medio e lungo termine sulle famiglie, sulla società e sulla cultura.
“Siamo davanti – dice – a due diversi scenari: il primo è quello di chi ha lasciato casa per rifugiarsi in qualche altra parte del suo Paese o in quelli vicini. In questo scenario gli uomini che erano culturalmente destinati a fare i capo famiglia poiché detentori di un lavoro e dunque di un salario, si sono ritrovati di colpo senza un’occupazione, un’identità.
Oggi nei campi è la donna che riveste il ruolo di capo famiglia
poiché quasi tutti i maschi, compresi tra i 16 e i 50 anni, sono dediti al gioco d’azzardo, all’abuso di alcool, alla droga, commettono episodi di violenza anche sessuale. Le donne si ritrovano sulle spalle il peso della famiglia che si arricchisce sempre più di nuove nascite, visto l’alto tasso di natalità che si registra all’interno delle comunità di rifugiati”. Il secondo scenario, “molto chiaro in Siria”, è collegato “ai pochi maschi rimasti. Moltissimi sono fuggiti per non andare in guerra. Chi è rimasto oggi racconta che prima della guerra andavano a scuola e il loro ultimo problema era capire di che religione fosse il suo vicino di banco. Oggi invece è la prima cosa cui si fa caso perché si ha paura. Urge allontanare la paura dell’altro.
Le tensioni religiose che un tempo erano molto pacate sono destinate a crescere”.
“I cristiani e le altre minoranze vivono le stesse sofferenze del resto della popolazione – sottolinea Tagliani –.
Se non si ricostruisce il tessuto sociale e culturale il futuro vedrà solo zone interamente cristiane, sunnite, sciite e di altre minoranze. In attesa della prossima guerra. Noi cerchiamo di gettare semi di amicizia, di pace e di tolleranza”.