Rifugiati siriani in Libano: il diritto negato alla salute mentale

Data 12.03.2019

di Silvia Mascheroni per National Geographic Italia. Foto di Mattia Marzorati

Chi è fuggito dalla guerra in Siria si trova a dover lottare quotidianamente non soltanto per la sopravvivenza. I profughi soffrono di disturbi mentali legati alle condizioni di vita precarie e non rispettose della dignità umana

Essere al sicuro è l’unico aspetto positivo di vivere qui: non mi sento a casa, ma non ho un altro posto dove andare.

R., 33 anni, viveva ad Hama, in Siria, dove aveva casa, lavoro, stabilità. Poi, con la guerra scoppiata nel 2011, ha perso tutto. Dal 2015 vive a Beirut: non è una scelta ma “l’unica opzione che ho, poiché tornare in Siria non è sicuro e andare altrove troppo costoso”. Da tre anni ha trovato nella clinica di Caritas Libano uno spazio sicuro dove poter parlare.
La storia di R. è comune tra il milione e mezzo di rifugiati che dal 2011 ha attraversato il confine tra Siria e Libano: storie di persone che hanno lasciato tutto nella speranza di sopravvivere al conflitto siriano.

La situazione rimane inoltre estremamente complessa per chi si trova a lottare quotidianamente per la sopravvivenza. Bloccati tra le maglie di una burocrazia che agisce più da deterrente che da facilitatore all’accesso ai servizi, vivono nell’impossibilità di tornare in Siria e di costruirsi un futuro in Libano.

La sintomatologia più diffusa tra i rifugiati è oggi legata ad ansia, depressione e stress dovuti alle difficoltà quotidiane e non più tanto dai traumi causati dalla guerra. Per i siriani irregolari o senza mezzi economici è impossibile servirsi del sistema sanitario nazionale, per lo più a pagamento.
La maggior parte del lavoro è, quindi, demandata alle ONG: alcuni psicologi e psichiatri seguono anche 90 pazienti nello stesso momento, di solito per un periodo di tempo insufficiente e senza la possibilità di coprire tutti i casi presenti per via delle limitate risorse economiche disponibili.

Vivere in Libano, però, e soddisfare i propri bisogni di base è estremamente complesso: in queste circostanze, spiega Chant Kazandjian, responsabile dell’Unità per la Salute Mentale di Caritas Libano, il benessere psicologico non è percepito come il focus prioritario dei rifugiati che si concentrano sulla ricerca di cibo, soldi e casa.

Quando sono iniziati i bombardamenti su Aleppo, siamo arrivati qui. Adesso non abbiamo una casa né un lavoro. Non abbiamo soldi, non possiamo comprare cibo o mandare i bambini a scuola. Non abbiamo niente.

S. è in Libano dal 2013 e da qualche settimana segue delle sedute psicologiche nella clinica di Medici Senza Frontiere a Majdal Aanjar, nella valle della Bekaa. La sua esperienza personale riassume con precisione una situazione condivisa dalla maggior parte dei rifugiati siriani in Libano, per i quali le condizioni di vita precarie sono diventate la realtà quotidiana.
Le soluzioni abitative non raggiungono spesso nemmeno il limite della dignità: in città i rifugiati vivono in appartamenti piccoli e fatiscenti nei campi profughi sovraffollati; in campagna e sul confine abitano nelle tende in balia del clima e privi dei servizi di base. Per sfuggire alla disoccupazione accettano lavori poco qualificati e sottopagati, come contadini, allevatori o muratori: la mancanza di documenti, comune a molti rifugiati, impedisce loro di regolarizzare la posizione lavorativa, oltre che legalizzare la permanenza in Libano.

La critica situazione attuale e la mancanza di prospettive aumentano la diffusione di ansia e depressione tra i rifugiati; numerosi anche i casi di violenza domestica e tentato suicidio causati dall’impossibilità di sopportare lo stress quotidiano.
E i pazienti sono in aumento: anche grazie alle campagne di sensibilizzazione promosse da ONG e Ministero della Salute, lo stigma che circonda la salute mentale sta lentamente decrescendo e i rifugiati sono sempre più inclini a cercare un supporto psicologico.

Secondo Ursula Takchi, psicologa di AVSI, ONG italiana attiva a Marjayoun, nel Libano meridionale, gli specialisti devono gestire, oltre a un crescente numero di pazienti, la frustrazione di non poter sempre migliorare la loro situazione psicologica così strettamente dipendente dalle condizioni di vita.

Dal 2017 alcune migliaia di rifugiati sono tornate in Siria, ma al momento questa non è una strada percorribile da una larga maggioranza. Con la chiusura di parte dei progetti umanitari in Libano e la loro riapertura in Siria, sempre meno servizi verranno offerti ai profughi e una situazione già al limite sembra destinata a diventare sempre più incerta.