Profughi in Kenya, la Somalia non è pronta al rimpatrio

Data 05.09.2016
Kenya

Da anni e a fasi alterne, il governo di Nairobi ribadisce la sua intenzione di rimpatriare i profughi somali presenti in Kenya e di chiudere il grande campo di Dadaab. Ma senza una soluzione ai problemi interni della Somalia e un miglioramento dell'offerta educativa in patria, i 440mila cittadini somali in territorio kenyota sono destinati a restare ancora a lungo. Dal Kenya ce ne parla Andrea Bianchessi.

di ANDREA BIANCHESSI, Cooperante AVSI in Kenya, su Corriere.it, 3 settembre 2016

Il 26 agosto, 70 persone, cooperanti e funzionari di ong, organizzazioni internazionali, ministeri dell'educazione, sia operanti a Dadaab sia provenienti dalla Somalia, si sono riuniti, per la prima volta, per un'iniziativa promossa dalla ong AVSI nel quadro di un progetto per l'educazione nel campo kenyota, finanziato dall'Unione Europea, in partnership con Save the Children e Norwegian Refugee Council.

A partire da un tema tecnico, la presentazione di una valutazione sull'uso della lingua somala nel campo di Dadaab, al fine di ottenere raccomandazioni dai principali stakeholders, la discussione si è ampliata fino ad affrontare altri temi connessi di grande rilievo: la necessità che la formazione degli insegnanti e il titolo di studio della scuola primaria di Dadaab siano riconosciuti in Somalia, e che in Somalia si identifichi un unico curriculum scolastico (attualmente sono 10, dall'arabo all'italiano, dal keniota al turco) e che si aumenti la capacità di offrire opportunità di accesso a scuola. Ad oggi solo il 30% dei bambini ha accesso all'istruzione primaria.

Senza soluzioni a questi problemi pratici, dell'offerta di adeguati servizi di base, così come opportunità di lavoro, si sentirà parlare del campo Dadaab ancora a lungo, nonostante i ripetuti tentativi e “minacce” del governo di chiuderlo.

Basti tornare al 6 maggio scorso quando il governo del Kenya dichiarò la volontà di smantellare il campo profughi più grande al mondo, con 350.000 persone, in maggioranza somale. Da qui, secondo il governo, sarebbe partito il commando del gruppo al-Shabaab che ha colpito l'Università di Garissa nell'aprile 2015 e ucciso 147 giovani, l'ultimo grande attentato dopo quelli sulla costa a Mpeketoni con 48 morti nel 2014 e quello al centro commerciale di Westagate a Nairobi con 68 caduti nel 2013.

Da maggio si sono susseguiti appelli da tutto il mondo in ogni occasione, da parte di ambasciatori, delegazioni dell'Onu, ministri degli Esteri e capi di Stato, sia a Nairobi che in tutti i forum mondiali, perché il governo riconsiderasse la decisione.

La tensione nel campo è salita, i profughi, molti arrivati dal 1992, che considerano ormai Dadaab casa loro, erano spaventati e disorientati. Il governo intendeva chiudere il campo entro quest'anno, rispedendo i profughi in Somalia.

Ma la Somalia non è ancora pronta a riaccogliere i suoi: dopo quasi 25 anni di guerra civile, dalla caduta di Mohamed Siad Barre nel 1991, passando per la smobilitazione delle truppe americane immortalata dal film Black Hawk Down, lo sviluppo e la caduta delle corti islamiche e della pirateria, siamo oggi alla presenza del gruppo al-Shabaab, che oltre ad occupare porzioni significative del territorio fa frequenti attentati terroristici nella capitale Mogadiscio.

Tutto questo accade pur con la presenza sul territorio somalo della forza multi-nazionale di peace-keeping Amisom, con 20.000 effettivi, compresi soldati dai paesi confinanti del Kenya ed Etiopia. Le elezioni politiche previste per agosto sono state spostate ad ottobre, ma non si è ancora certi che si terranno effettivamente.

Il governo del Kenya alla fine ha preso coscienza della situazione sul campo e il 21 agosto ha rivisto la sua posizione: nessun obbligo di rimpatrio per i prossimi anni, fino a quando la situazione della Somalia non si stabilizzerà. Una decisione questa che va letta nel quadro generale del Paese che ospita oltre 615.000 profughi, scappati dai Paesi vicini per crisi prolungate: oltre a circa 440.000 profughi somali complessivi, si contano 130.000 profughi dal Sud Sudan (presenti principalmente nel campo di Kakuma, aperto nel 1993), il resto proveniente da Etiopia, Burundi, Tanzania, Rwanda, Uganda, ed altri paesi della zona.