Il campo profughi di Ashti 1 nel Kurdistan iracheno accoglie circa mille iracheni in fuga dall'Isis. Ma è diviso in due: da un lato i più fortunati, con acqua e bagni funzionanti, dall'altro i più poveri che vivono in gruppi da dieci in container minuscoli.
AVSI lavora in Iraq dal 2014 per dare supporto ai profughi giunti nel governatorato di Erbil dalla piana di Ninive. In particolare nel campo di Ashti1 per costruire bagni, installare impianti per l'aria condizionata e per rendere più vivibili gli spazi comuni.
Scopri tutti i progetti di AVSI in Iraq
La formazione per riaccendere la speranza dei giovani studenti
di Marco Perini, responsabile per il Medio Oriente di Fondazione AVSI, da La Stampa.it
Quando a Erbil fai il nome di Ashti1, chiunque sa di cosa stai parlando. «Il campo sfollati, quello più sgangherato, giusto accanto all'area ‘di lusso'», ti rispondono e ci si imbatte subito nelle contraddizioni che solo un mondo in perenne emergenza riesce a creare. Nella stessa città, nello stesso quartiere, in un unico lembo di terreno che ospita migliaia di sfollati dalla guerra in Iraq, ci sono profughi che vivono meglio degli altri.
Il luogo della scena è l'area a nord di Erbil, la capitale del Kurdistan iracheno che solo tre anni fa pretendeva di diventare la Dubai d'Iraq e oggi vive il dramma di una crisi economica micidiale dovuta al crollo del prezzo del petrolio. Si contano a decine i cantieri edili fermi e si vedono solo gli scheletri di quelli che avrebbero dovuto essere palazzoni milionari. Mentre un milione e mezzo di dipendenti pubblici - su un totale di quattro milioni - da almeno 8 mesi ha smesso di ricevere il salario. In compenso, a Erbil e dintorni sono arrivati circa un milione e mezzo di sfollati iracheni, giunti qui dal resto del Paese per sfuggire al famigerato Daesh, lo Stato Islamico.
È in questo contesto che nasce Ashti 1. Circa mille persone in fuga da Mosul e Qaraqosh, arrivano a Erbil, trovano due enormi capannoni (sino a quel momento buoni soltanto ad allevarci i polli), un grande prato tutto intorno e, piano piano, con pazienza e i pochi risparmi che si sono portati, tirano su le loro nuove case. Con il tempo, e con l'aiuto delle comunità cristiane presenti nel territorio, arrivano anche dei container, in cui poter dormire, mangiare, vivere. Sempre in gruppi di sette, dieci persone in spazi di venti metri quadrati.
Era il 6 agosto del 2014, fuori c'erano 50 gradi, sotto ai capannoni anche 60. Ma qui, almeno, per terra c'era il cemento. Con loro è arrivato anche padre Jamal, che da quel giorno diventa il ‘manager' di questo gruppo di persone e continua a compiere quotidianamente miracoli di sopravvivenza. “Presto libereranno le nostre città e noi torneremo a casa”, ripete fiducioso mentre passeggia per il campo e chiacchiera con i residenti, ognuno con la sua lista di bisogni: dalle medicine che mancano e costano, all'acqua che non arriva, alle latrine da sistemare. Jamal, da buon pastore, non può abbandonare il suo gregge.
Sette mesi dopo, siamo a marzo del 2015, nello stesso prato arrivano altri 5mila sfollati, spostati lì dal governo locale. In poco tempo, grazie all'aiuto umanitario che nel frattempo aveva iniziato a funzionare a pieno regime, costruiscono un campo profughi davvero attrezzato: sempre container, ma anche acqua corrente, un sistema fognario, luce elettrica, protezione esterna. Esattamente quello che manca ad Ashti 1, i cui abitanti hanno l'unica colpa di essere arrivati troppo presto, senza fare troppo rumore e che, per questo crudele e assurdo motivo, sono destinati a rimanere a lungo il “campo di serie B”.
Incontrare Jamella, 6 anni e tanta voglia di giocare alla palla, e padre Jamal, stanco di troppe battaglie per tirare a campare, fa un certo effetto. Insieme si guarda a se stessi e poi a “quelli dall'altra parte”: tutti sfollati, ma con destini diversi.