Il Presidente di Fondazione AVSI, Alberto Piatti, interviene nel dibattito lanciato dal ministero degli Esteri. "La cooperazione allo sviluppo dovrà essere cooperazione di sistema in cui le istituzioni, il non profit, le imprese e la ricerca – mantenendo la giusta distinzione dei ruoli - lavorano insieme".
di Alberto Piatti, da Vita.it
La proposta di Emilio Ciarlo cita un tema a me caro: “la riforma della cooperazione sarebbe monca se non compissimo l'ultimo miglio e non dotassimo l'Italia di una Banca di Sviluppo”. Desidero qui riproporre alcune considerazioni, già fatte in altre sedi, circa la necessaria premessa fondativa di ogni strumento, senza la quale andremmo incontro a un insuccesso.
La Comunità Internazionale, attraverso un percorso scandito da una serie di conferenze internazionali negli anni novanta, ha preso l'impegno di creare un “mondo migliore”. Tale impegno si è tradotto, sinteticamente e simbolicamente, negli otto Obiettivi del Millennio da raggiungere entro il 2015 e nell'attuale framework degli obiettivi di sviluppo sostenibile. Questa è l'infrastruttura sociale che la Comunità Internazionale ha deciso di costruire. La difficoltà a raggiungere tali obiettivi è dovuta sia a ragioni congiunturali – la crisi economico-finanziaria – sia a un problema strutturale, dettato dal modo di concepire gli aiuti che si trascina.
L'esperienza ci dice che l'infrastruttura sociale di per sé non è sufficiente: occorre un “aggancio” tra la singola persona e l'infrastruttura stessa. Poiché questo aggancio dipende inesorabilmente dall'iniziativa personale, risulta essere il vero punto debole per le persone più fragili e che vivono nell'informalità e nella solitudine.
Il compito di costruire una relazione con le persone più fragili è sempre stato svolto dalla comunità di appartenenza. Per rendere stabile questo legame con le persone più vulnerabili, la comunità si organizza con strutture di servizio, ossia corpi intermedi e organizzazioni della società civile in grado di raggiungere la singola persona, anche la più fragile, e legarla alla compagnia umana e dunque all'infrastruttura sociale.
In altre parole, l'ultimo miglio dell'infrastruttura sociale è realizzato e “mantenuto” dalle organizzazioni della società civile.
Attenzione, questo rapporto inclusivo ha anche un vantaggio per la società: porta alla comunità la ricchezza delle persone altrimenti escluse. Generalmente percepite come un costo sociale o un “peso”, le fasce fragili, i popoli in via di sviluppo e le minoranze, si prospettano invece come la vera risorsa per il futuro, specie per il nostro mondo in crisi e in ricerca di nuovi paradigmi. Anche per questo, un percorso di crescita veramente inclusivo non può fare a meno di valorizzare i corpi intermedi e il loro ruolo fondamentale nell'ultimo miglio verso la persona.
Certo, il ruolo delle organizzazioni della società civile implica alcune criticità: devono essere espressione di una base, di una comunità. Oggi vengono spesso intese come meccanismi sociali, ma questo non farebbe che montare ulteriori pezzi dell'infrastruttura allontanandola dalla persona. Se si sganciano da questo compito per identificarsi con soggetti che definiscono politiche o che controllano (watchdog) l'infrastruttura sociale, si separano anche dalla comunità e dalla persona. Infine, esse devono aprirsi a una realtà mutata e riconoscere il ruolo del privato nello sviluppo.
Occorre quindi una nuova alleanza tra gli attori sulla scena sociale: istituzioni pubbliche, settore privato, ricerca e organizzazioni della società civile.
Giovanni Paolo II nella Novo Millennio Inuente, citando don Orione, scrive: “occorre una nuova fantasia della carità”. Provando ad esercitare così questa “fantasia”, la cooperazione allo sviluppo non potrà più essere segmentata fra i diversi ambiti e i diversi attori, ma dovrà essere cooperazione di sistema in cui le istituzioni, il non profit, le imprese e la ricerca – mantenendo la giusta distinzione dei ruoli - lavorino insieme. Questi sono i quattro pilastri che devono sostenere la piattaforma della cooperazione del terzo millennio.
Se caliamo tutte queste considerazioni nella realtà italiana, ci imbattiamo nel progetto di riforma in corso, che senza dubbio porta, forse con eccessiva timidezza, principi innovativi. Anche l'idea di una Banca per lo sviluppo va in questa direzione ed è apprezzabile. Una banca per lo sviluppo radicata nella cultura italiana potrebbe favorire un business “non as usual”, ovvero superare alcune logiche, purtroppo diffuse in alcuni contesti, di sfruttamento delle risorse e occupazione di spazi di mercato, per favorire, in loco, la creazione di valore diffuso, includendo la “base della piramide” e valorizzando le risorse umane e ambientali presenti. Insomma, una banca italiana per lo sviluppo sostenibile, che riconosca nel valore della persona a tutte le latitudini il punto centrale della sostenibilità.
Si stima che, a livello globale, ogni 2 dollari dedicati alla cooperazione allo sviluppo dal sistema istituzionale, il settore privato ne investe 6/8. È una dimensione che non si può e non si deve ignorare. Per restare in Italia, strumenti come Simest, Sace e Ice potrebbero essere parte di un sistema paese con una valenza sociale esplicita e dedicata, magari con l'introduzione di condizionalità “positive” per la concessione delle diverse tipologie di strumenti economici finanziari. Una Banca di sviluppo non può non considerarlo, a meno di volersi rinchiudere in un recinto dei buoni.
In questa direzione un partenariato forte tra pubblico, privato e privato sociale aiuterebbe a colmare l'ultimo miglio anche per il settore privato che investe nei Paesi. Insomma un vero Sistema Paese che veicoli la ricchezza dell'Italia, superando tabù ideologici che la storia a spazzato via.
Capisco che abbiamo la necessità di un salto culturale grande ma dobbiamo muovere in questa direzione anche perché senza lavoro non c'è sviluppo ed è questo che dobbiamo favorire ovunque operiamo nel mondo a meno di voler perpetuare il nostro ruolo per giustificare la nostra esistenza.