Nel'Amazonas, dove i trafficanti dettavano legge, una ong italiana aiuta i contadini a riconvertire le coltivazioni. E a sostituire la coca con il cacao.
Al'alba incontri gente per le strade a guardare i pezzi di cielo caduti dentro le pozzanghere. Altri strizzano gli occhi a fessura sul rio Utcubamba, che taglia la regione di Amazonas, nel nord del Perù , con la paura che l'acqua trascini giù le montagne. Il fiume intanto ribolle, color del cioccolato, e porta con sé lo sfrigolio di luci che frantumano le nuvole dopo gli acquazzoni della notte. D'altro canto siamo in Amazzonia, uno degli ecosistemi più potenti e fragili al mondo, e quest'anno la stagione delle piogge non vuole finire.
«Non ci si oppone alla forza della natura, si impara a viverci insieme» commenta un omone in stivali alti, diretto ai campi intorno alla cittadina di Bagua, centro di questo regno di prati e foreste.
Eppure qui in tanti hanno provato a fare la guerra alla Pacha Mama, alla madre terra: nel 2009 i petrolieri alleati al governo che volevano sfilare i giacimenti da sotto i villaggi dei nativi – e finì nel peggiore episodio di violenza civile di sempre -, oggi gli affaristi della coca, pianta di cui il Perù è il primo produttore al mondo, che bussano in fuga dal vicino distretto di San Martin, storico teatro di narcotraffico e guerriglia. Ma neppure loro l'hanno avuta vinta: perché in questa eccezionale fascia di Sud America, che si dirama dal Perù verso l'Ecuador, il nuovo petrolio si chiama cacao criollo, il più prezioso e ricercato al mondo.
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Ora c'è una prospettiva di futuro. E il nuovo cartello dei “cacaoteros”, consapevoli da poco di avere una ricchezza che prende alla gola l'Occidente, ha deciso di puntare su un futuro legittimo e armonioso. Anche grazie alla collaborazione della Ong italiana Avsi, dal 2011 attiva per coordinare i produttori e per migliorarne le tecniche di coltivazione. Con loro siamo andati nel cuore di questa nuova vena di sviluppo, che rende, a livello nazionale, un indotto di 145 milioni di dollari per le vendite all'estero e coinvolge 45 mila famiglie.
«Ha le stesse qualità di migliorare l'umore e di dare forza: il cacao, però, non alimenta commerci cattivi come la coca» commenta con occhi vispi e parole semplici Navidad, presidente di un comitato di donne coraggiose, abbarbicate in un paese di fango dell'Alto Amazonas, che non tremano davanti a un machete all'ora del raccolto dei grandi frutti sacri al Dio atzeco Quetzalcoatl, da cui discende il nome cioccolato.
Grazie al microcredito introdotto da Avsi, ora maneggiano un po' di soldi – che non vanno più tutti per il trago, l'alcol, dei mariti – e stanno investendo per espandere i terreni coltivati e migliorare l'attività: «E anche per alcuni piccoli prodotti di nostro consumo» aggiunge Nora, altra rappresentante del gruppo, offrendo a tutti una bibita dissetante che tira su dal fuoco, dopo l'ebollizione delle fave del cacao pregiato. E poi tutto finisce in cibo e compagnia, che è pur sempre questa l'America Latina.
E la rete dei produttori lega insieme realtà molto diverse della regione, discendendo dalle alture fino alla selva, ricca di frutti dai nomi esotici, non colonizzati dalla lingua degli spagnoli. Qui, le comunità indigene awajùn hanno lasciato l'attività della pesca per l'agricoltura, avendo annusato l'affare. «Noi con la natura siamo sempre stati bene» racconta Yorgbar, un nativo della comunità di Shushung, 92 anni portati d'incanto su una statura dritta e forte, che incontriamo di là di un corso d'acqua, rimboccando i lembi fitti dei rami del cacao, sotto una cappa di aria calda e umida che si appiccica alla pelle come un abito stretto. «Il cacao era parte del nostro cibo, le famiglie avevano talvolta una pianta di coca che masticavano per sopportare meglio la fatica, e tutte le erbe di questa terra bastavano: non ci ammalavamo mai, non conoscevamo il denaro. Poi sono arrivati i bianchi avidi e l'equilibrio si è rotto». Ma anche loro hanno scelto la strada legale e ora ci introducono con fierezza nei 75 ettari di campi e ci mostrano i frutti gialli e rossi del cacao, grandi come cedri. «Con questi manteniamo le nostre famiglie e facciamo studiare i nostri figli: dobbiamo prepararci a un nuovo mondo, in commercio con il vostro» racconta Senepiu, 70 anni, spiccando con un sol colpo di machete le fave dolci, dentro il frutto.
La coca “rende” cento volte tanto, ma toglie la dignità. Il raccolto dei produttori viene venduto alla cooperativa Ceproaa, a Bagua, che si occupa, con l'aiuto della cooperazione italiana, della prima lavorazione dei semi e di instradarli nel commercio, dopo averli essiccati e fatti fermentare con processi biologici. In queste terre sono stati raccolti – e poi moltiplicati con la clonazione e l'innesto – i frutti vincitori di più edizioni del “Cacao de oro” al Salone nazionale di Lima, tanto che si sta pensando a una denominazione doc. Nel giorno dell'assemblea dei soci di Ceproaa, saliti a 426 in pochi anni, è un rimbalzare di idee e richieste di miglioramento tra i presenti, arrivati qui da strade lontane anche vari giorni di cammino.
E tutti raccontano di ricevere con dignità e orgoglio i 3 soles (1 euro) pattuiti per ogni chilo di cacao, contro i 120 (60 euro) che frutterebbe la coca. In mezzo ai tavolacci, con l'odore acre delle fave che fermentano, il presidente della cooperativa Wilme Medina ci apre la sua storia di ex cocalero: «Mi ero spostato a San Martin e con la coca avevo guadagni facili e rapidi» racconta. «I narcotrafficanti erano esigenti e dall'altra parte il governo e la polizia eseguivano le campagne di eradicazione e ci cacciavano. Quella vita non era né bella né vera. Ora ho meno, ma sono più felice» sorride. E sono parole esemplari sulla strada che vuole prendere un Paese che da anni sta tentando di uscire dalla povertà verso un regime di crescita non truccata, anche grazie alla battaglia del presidente peruviano Ollanta Humala, che promette entro l'anno di ridurre della metà i 60 mila ettari di campi illegali di coca. Una speranza, come quando dalle grosse nuvole amazzoniche spunta di nuovo il sole.
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