Nell’ospedale di Aleppo senza acqua né luce

Data 12.12.2016
Aleppo

Da due mesi al Saint Louis di Aleppo manca l'acqua potabile, da cinque la struttura è alimentata a gasolio che spesso non basta o è troppo costoso. Il personale si è trasferito negli studi medici per poter lavorare nonostante i bombardamenti. “I medici sono l'unica speranza per la Siria”, ha spiegato il direttore dell'ospedale.

da Corriere.it, 7 dicembre 2016

«Stiamo in sala operatoria 13 ore al giorno. Non è facile per uno della mia età. Ma l'onda di feriti che ci sta travolgendo è enorme. Gente colpita per strada, al lavoro, in casa, nei mercati». Ha 62 anni e da 37 lavora all'ospedale Saint Luis, al centro di Aleppo che brucia. E' il direttore del nosocomio, George Theodor: «Quanti feriti nelle ultime 24 ore? Ho perso il conto».

Il 26 novembre l'esercito regolare siriano affonda il colpo su Aleppo est per cercare di strapparla ai ribelli. In quattro giorni sono oltre 50.000 le persone che sono fuggite per cercare riparo altrove. Poco più della metà ha raggiunto aree sotto controllo curdo. Gli altri hanno deciso di traversare il fronte e hanno raggiunto Aleppo ovest, in mano al Governo.

Se le truppe di Assad forzano l'offensiva, dall'altra parte non stanno a guardare: «Mai visto così tanti mortai piovere dal cielo – dice ancora George – Cadono ovunque, senza tregua».

Lui e il suo staff faticano a trovare il tempo per riposare. Medici, infermieri, tecnici e, con loro, le suore di Saint Joseph, che vivono in ospedale: «Queste donne si fanno in quattro – racconta il medico e mentre lo racconta la sua voce sicura si spezza per lo spazio di una frase soltanto – Loro restano dentro. Se qualcuno di noi è in ritardo o non si presenta al posto di lavoro perché non riesce ad uscire di casa sotto i bombardamenti, loro ci sostituiscono come possono. Notte e giorno. Le guardo in faccia e mi chiedo quando dormano».

Già, perché Aleppo brucia e bruciano le sue strade. Gli spostamenti sono difficili, tanto difficili che più di metà dello staff, ormai da mesi, ha fatto una scelta estrema, a cavalcioni tra paura e sacrificio:

«Abbiamo perso molti collaboratori, in questi anni. Alcuni se ne sono andati mentre stavano venendo qui, al lavoro. Accanto all'ospedale ci sono vecchi studi medici abbandonati. I colleghi che ci lavoravano hanno lasciato il Paese all'inizio del conflitto. Buona parte del mio staff ha deciso di trasferirsi in quelle stanze con tutta la famiglia al seguito. Non sono affatto confortevoli, ma sono vicine. Sanno che c'è bisogno di loro, che loro sono l'unica speranza per queste persone. E allora hanno stravolto la loro vita già stravolta dalla guerra pur di varcare queste porte ogni mattina e fare il loro mestiere. Salvare la vita della nostra gente».

Ma le difficoltà di spostamento non riguardano solo le persone. Gli stock di farmaci sono difficili da rifornire, i pezzi di ricambio per le apparecchiature mediche sono pochi e anche quando si trovano, mancano ingegneri e tecnici. O sono fuggiti, o raramente riescono a raggiungere le fiamme del cuore di Aleppo.

Non basta. George alza il tono, la rabbia gli vibra in gola, gli sfonda le labbra:

«Siamo senz'acqua da due mesi. La prendiamo da un pozzo, ma non è del tutto potabile. Va trattata. Sapete che cosa significa per un ospedale? E la corrente manca da cinque mesi. Siamo costretti a tenere in marcia il generatore 24 ore su 24. Il Ministero riesce a farci arrivare 3.000 litri di gasolio a settimana, ma spesso restiamo a secco e allora tocca andare al mercato nero, dove il prezzo del carburante è alle stelle».

Per alimentare un gruppo elettrogeno da 400 Kw, il costo del diesel, in termini di spese per infrastrutture sanitarie, potrebbe sembrare risibile: 500 dollari al giorno. Risibile per chi li ha:

«Questa gente, la mia gente, i miei infermieri, guadagnano un salario mensile che è la metà di quella cifra. E nei mercati c'è tutto, esposto in bella vista. Ma costa 20 volte quello che costava prima della guerra. Dal riso alle verdure. Dalla pasta al latte. Lavorano come muli, ma con la fame addosso».

E' l'altro rumore della guerra, quello senza i bum. E' il suo rumore di silenzio, muto nei cartellini dei prezzi, nei piatti vuoti, nei pochi vestiti dentro l'armadio, anche se adesso è inverno, e il freddo affila le zanne. E' il conflitto che striscia dentro il quotidiano delle famiglie. E' l'orrore che, paziente, un giorno appresso all'altro si è camuffato da inevitabile routine, da normalità bestiale.

Mhjed, ha 27 anni. Miriam ne ha 25 e Bassam 22. Sono i tre figli di George. Nati e vissuti ad Aleppo fino a pochi anni fa. E poi via, lontano dalla guerra, per poter vivere e studiare. Sono tra i pochi privilegiati:

«Li ho mandati negli Stati Uniti per dar loro un futuro. Rubie, mia moglie, si è trasferita anche lei. Torna in Siria un paio di mesi l'anno per starmi vicina. Ma io non posso andarmene. Questa è la mia gente, questo è il mio ospedale. E se anche voltassi le spalle alla mia terra, a 62 anni nessuno mi offrirebbe un lavoro, negli States. Io resto qui, ad Aleppo. Per ricucirne le ferite come e finché posso».

Per far fronte alla crisi sanitaria che sta mettendo in ginocchio la Siria, la ong italiana Fondazione AVSI, in collaborazione con Cor Unum e Fondazione Gemelli, ha lanciato una campagna di raccolta fondi per sostenere economicamente le attività di quattro ospedali cattolici a Damasco e ad Aleppo, tra cui il Saint Louis. Si tratta di strutture che dispensano servizi pari a meno della metà delle loro potenzialità, a fronte di un bisogno sempre crescente da parte della popolazione delle due città. Un progetto punta a potenziare le attività delle strutture fino al 90% delle loro capacità, quindi agevolando l'accesso della popolazione alle cure sanitarie e assicurando ai pazienti più indigenti cure ospedaliere e ambulatoriali gratuite.