Nairobi, la storia di Lole nascosta negli angoli bui dello slum di Kibera

Data 17.10.2017

NAIROBI (baraccopoli di Kibera) di RAFFAELLA SCUDERI​ - Lole è una ragazza congolese di 17 anni e vuole fare la calciatrice. E’ scappata dalla Repubblica Democratica del Congo cinque anni fa, assieme alla madre e a tre fratelli. In questi cinque anni la famiglia si è allargata. Si sono aggiunti due fratelli, nati da uno stupro. Il viaggio per raggiungere il Kenya è durato due mesi. Sessanta giorni di discriminazioni, botte e abusi sessuali. Senza pausa. Ma Brigitte, la mamma di Lole, 40 anni all’anagrafe, ma 60 negli occhi, è riuscita a risparmiare questo inferno ai suoi figli. Non ha permesso che venissero toccati. Si è fatta stuprare lei, ripetutamente. L’arrivo in Kenya ha segnato per loro un nuovo inizio. Una baracca nella zona dei rifugiati, ma anche un nuovo ciclo di abusi. Questa volta consenzienti, se così si possono definire. Brigitte si prostituisce ogni giorno. Negli angoli bui dello slum di Kibera, una città nella città che aggrega dodici villaggi, in tutto circa 200.000 persone. A casa spesso non si mangia per giorni. Il figlio Eric è malato di ameba, un verme che entra nel corpo per cibi avariati e divora lo stomaco. L’unica medicina che prende è il paracetamolo. Noi lo usiamo per il mal di testa.

In Congo era un’infermiera. Ma in Kenya non le riconoscono alcun attestato. Qui non è nessuno. E’ un corpo in vendita. Per un rapporto sessuale la pagano 20 centesimi, una piccola colazione per sei persone. Kibera si dice sia la bidonville più grande dell’Africa, dove le baracche, attaccate l’una all’altra, sono circondate da montagne di immondizia e fogne a cielo aperto. Montagne vere, non per modo di dire. Ci riceve in due metri per due, tirati a lucido in nostro onore. E’ una donna bella, forte, almeno così sembra. Inizia a raccontare la sua vita. Lo fa con parole sobrie, senza drammatizzazioni, senza lacrime, senza inflessioni della voce, Tenendo in braccio la sua ultima creatura di sole due settimane. Siamo tutti nella stanza, Brigitte, Lole ed Eric, consumato dalla malattia che si ripiega su un fianco con il viso in lacrime, rivolto verso il muro dandoci le spalle. Non vuole farsi vedere piangere. Man mano che Brigitte racconta il suo inferno, Lole inizia ad incupirsi ed esce dalla baracca. A quel punto la madre non ha più motivo di contenersi. Prosegue nel racconto, ma questa volta con le lacrime che le inondano il volto. E ripete come un mantra: “Perché?”
E’ stanca, vuole lavorare dignitosamente. Ma non sa come fare.

Lole rientra in ‘casa’, a testa bassa. Non sorride più come prima. Reclina il volto e scompare. Questa giovane 17enne è una calciatrice professionista e ne è orgogliosa: “Io gioco meglio dei ragazzi della mia squadra”. E’ sicura di sé, delle sue capacità. Vuole fare il coach e insegnare l’azione salvifica dello sport. Ma come farlo? Nel tempo che le rimane, tra un allenamento e l’altro, esce in strada per vendere l’acqua (venti litri caricati tutti insieme sulle spalle).Non ha scarpe per allenarsi. Uno svizzero gliene ha regalata una. Non solo, ma anche di due numeri più grandi. “Perché sei uscita, prima?”, le chiediamo. “Perché non sopporto vedere mia madre piangere”. Quali sono i tuoi desideri?. “Andare via da questo Paese. Non vedere più mia madre piangere. Diventare coach. E un giorno rivedere mio padre”. Il padre è stato arrestato prima della fuga. Era a capo del sindacato degli agricoltori. E’ scomparso nel nulla. Brigitte è preoccupata per la passione calcistica di Lole. Teme che venga stuprata. Ma questa ragazza sa come difendersi: “Non permetto a nessun maschio di avvicinarsi a me con queste intenzioni. Non appena intuisco che sta per accadere, meno le mani”. Brava Lole.

Il lavoro di dell'Ong AVSI. Questa è solo una delle tante storie che fanno di Kibera uno dei luoghi più infami e disumani dell’Africa orientale. Qui i cooperanti e i volontari di Avsi lavorano come formiche. Invisibili, determinati, efficaci, soprattutto non invasivi. Avsi è un organizzazione laica italiana nata nel 1972, che ha assunto ormai un profilo internazionale: 2000 cooperanti in 30 Paesi del mondo, con più di 100 progetti dedicati allo sviluppo. Nelle loro strutture non vengono usati criteri religiosi nella selezione dei bambini da sostenere: ci sono musulmani, induisti, protestanti, cattolici e animisti. Si prendono cura dei bambini dai 3 ai 17 anni. Sponsorizzano uno dei fratellini di Lole. Lo sostengono a scuola: uniformi, scarpe, cibo e un futuro. E così fanno con tutti gli altri ospiti dei loro centri. Il loro metodo prevede un’interazione costante con i genitori. Soprattutto con le mamme. Negli slum gli uomini non si vedono, sono ubriachi, drogati e codardi. Fanno solo danni. Le donne sono accolte nei centri per insegnare loro un mestiere e le motivazioni giuste perché siano in grado di sostenere i loro figli. Non infieriscono nel credo religioso e nelle credenze personali dei loro assistiti. Si limitano a camminare al loro fianco, insegnando bellezza, lavoro e speranza.

Le adozioni a distanza. Avsi si sostiene con i donatori e le adozioni a distanza. Come può. I soldi sono sempre di meno rispetto alla crescita della povertà, in un Paese dove l’economia galoppa sì con una crescita del 5,5 % annuo, ma aumentando disastrosamente le disuguaglianze tra chi ha tanto e chi continua ad avere sempre meno. I soldi arrivano, ma i poveri sono sempre di più. I programmi di Avsi sono numerosi. Oltre ad aiutare i ragazzi in strutture e centri di accoglienza non appartenenti alla loro associazione, hanno creato delle vere e proprie scuole di eccellenza. Una di queste è The little prince. Il piccolo principe, un messaggio chiaro sulle intenzioni di questa fondazione italiana nata nel 2000. I cooperanti di Avsi in Kenya sono circa 60, di cui 3 italiani e il resto locali, spesso bambini usciti dalle loro scuole, formati per sostenere e trasformare queste piccole vite, al di là delle etnie.

Dove vanno a finire le risorse dei donatori. The little prince ha 11 classi e 346 studenti, una biblioteca, un laboratorio artistico, un teatro, la mensa e una sala computer. Il nostro Paese purtroppo non eccelle in donazioni. “Solo in Italia - racconta Antonino Masuri, uno dei responsabili Avsi a Nairobi – la gente si domanda: ‘Ma dove vanno veramente a finire i miei soldi?’ ”. Ecco. Vanno a finire a casa di Brigitte, che cura suo figlio, smette di prostituirsi e conquista un futuro per i suoi figli. Una goccia nell’oceano, si dirà.Una pietra lanciata a filo sull’acqua. E' vero, in una certa misura è proprio così, ma quella pietra - assicurano i cooperanti di Avsi - è capace di formare centri concentrici, che si allargano sempre di più fino a raggiungere centinaia di altre persone.