Reportage di Alessandra Muglia - Corriere della Sera. Riprese di Francesco Pistilli e foto di Aldo Gianfrate
Il murales
Barba e capelli bianchi, lo sguardo che si perde lontano: Manuel e compagni hanno appena finito di ritrarre così il Picasso d’Africa, Malangatana. Tra polvere e baracche, a poche centinaia di metri dall’aeroporto internazionale di Maputo, questo murales dà il benvenuto a chi arriva da un altro mondo. Presenta volti e massime degli artisti più famosi vissuti tra queste case di lamiera, a ridosso del centro città. Figure simbolo di una baraccopoli che sembra una Montparnasse nera.
Tra i suoi vicoli di terra si scorgono facciate decorate come capulane e porte di legno finemente intarsiato che impreziosiscono dimore di latta e legno, evoluzione di quelle di paglia dove fino all’anno scorso abitava anche Manuel. Eloquio fluido e fisico asciutto, Manuel Manjate, 32 anni, per vivere espone le sue opere al Feima, la fiera dell’arte e dell’artigianato di Maputo, dove ha uno spazio insieme ad altri giovani colleghi: «D’estate quando ci sono più turisti vendiamo bene e ci chiamano anche per tenere dei workshop al Museu Nacional de Arte, d’inverno invece è dura» dice.
Vivere d’arte
«Per arrotondare a volte facciamo lavori di grafica o dipingiamo case» annuisce Isac, figlio d’arte, ventisettenne: suo padre era Naftal Langa, uno dei sette big ritratti nel murales, scultore autodidatta morto 5 anni fa. Isac vive in una casa di mattoni a pochi centinaia di metri dal murales. La porta si apre su quello che era l’atelier del padre: una stanza con il soffitto di lamiera, i fili dell’elettricità a vista, in mezzo un tavolo sommerso da sculture di legno. Uomini stilizzati, per lo più mutilati di guerra. Eredità di una guerra civile senza fine che ancora segna il Paese a un quarto di secolo dalla pace. Del resto a sfidarsi alle urne a ottobre, per le elezioni politiche e presidenziali, sono le stesse forze che si scontrarono all’epoca con le armi.
Dentro l’atelier
Della fiducia nella lotta politica che aveva animato i padri è rimasto poco. Oggi la speranza di una vita migliore viaggia su altre strade. «Si può vivere anche così e magari riuscire a dare speranza a chi le gambe le ha» dice Isac, il mutilato di legno in mano e l’occhio al futuro. Manuel rievoca l’incoraggiamento ricevuto da un altro dei big immortalati nel murales: «Un giorno Lindo Chongo mi disse: ‘Tu sei un ragazzo ricco”. Risposi basito: “Non credo, vivo in una casa di paglia”. E lui: “Mostrami le tue mani, ecco, sono loro la tua ricchezza”». Con il tempo Manjate gli ha dato ragione: «Ho disegnato e costruito io la mia nuova casa» dice orgoglioso. Ce la mostra. È in legno ricoperto di latta rossa. Dentro il fratello disabile guarda la tv seduto su una sedia, la madre è fuori, lavora al mercato, il padre è morto, insegnava inglese, ecco perché Manuel lo parla bene come pochi qui.
Lui, Isac e altri due giovani artisti hanno appena tenuto un workshop per i ragazzi del quartiere, culminato in questo murales collettivo.
Con le nostre lezioni non pretendiamo che tutti diventino artisti, ma che sperimentino l’arte come spazio per progettare il futuro
Manuel Manjate, artista di Maputo
I nuovi tour
Il futuro per loro inizia da questo murales, punto di partenza di nuovi tour turistici tra le baracche che nulla ha a che spartire con i controversi «safari della povertà» in slum e favelas, del tipo «poverty porn». E’ piuttosto un «giro del riscatto»: le tappe sono frutto di un lavoro sul campo di leader locali e cittadini che hanno condiviso saperi e conoscenze. Hanno mappato il distretto, ne hanno riscoperto il patrimonio culturale e artistico, lo hanno messo in mostra, in una esposizione a cielo aperto per le vie del quartiere, e adesso sono pronti a sfruttarlo anche economicamente. C’è stato un bando per scegliere i migliori progetti e ora i tre vincitori si preparano a partire.
Parola d’ordine: rigeneraçao
L’iniziativa rientra nel progetto Rigeneraçao avviato con fondi dell’Unione europea da ong locali supportate da AVSI e Cesal, in collaborazione con il municipio di Maputo in alcuni bairro del distretto di Nhlamankuku, primo anello della cintura suburbana della capitale. Un piano di sviluppo con corsi per agente turistico e guide, di formazione all’imprenditorialità per agevolare la nascita di piccole imprese, negozi e punti di ristoro. Viene chiamato «turismo comunitario», e oltre a portare lavoro e sviluppo, si spera possa erodere la barriera culturale che divide le baraccopoli dalla «Cidade de cimento», il centro città, la parte abitata dai coloni portoghesi fino all’indipendenza dove oggi convivono affacciati sull’Oceano Indiano moderni grattacieli e antiche abitazioni coloniali.
Il tour nel bairro di Chamanculo diventa un viaggio nella storia del Paese. A fare da guida sono gli «anziani», figure che hanno visto passare sotto i loro occhi i movimenti che portarono all’indipendenza nel 1975, la lunga guerra civile e la grande crisi degli anni ’80, il passaggio dal Mozambico socialista alla sua apertura all’economia di mercato. Alves Pfumo, del comitato del quartiere, è preoccupato per l’esplosione demografica dell’area: «A Chamanculo eravamo eravamo in 5 mila nel 1986 oggi siamo 27 mila. Questo è stato un ricco serbatoio di manodopera per le miniere in Sudafrica, il Kruger Park è a due ore da qui, e proprio qui c’era il punto di ritrovo dei pullman che ogni giorno ripartivano oltreconfine carichi di mozambicani. Poi però la richiesta è calata: ora siamo molti di più e con meno, pochissimo, lavoro».
A offrire occupazione era qui anche l’Ufa, l’antica fabbrica costruita dai portoghesi nel 1950 per produrre la gomma delle suole delle scarpe, l’unica del Paese. Dopo l’indipendenza, sotto la gestione statale, l’impresa stava fallendo, la rilevarono i cinesi che la trasformarono in fabbrica di borse di plastica. Ora è di nuovo chiusa: “Si è rotto un macchinario, non si riesce a trovare il ricambio” abbozza un guardiano all’ingresso. Chissà, forse per l’Ufa si prospetta ancora una nuova vita: di sicuro resta tappa obbligata del tour.
A casa del Picasso d’Africa
Un tour dell’orgoglio: in questo distretto sono nate personalità che hanno fatto la storia e segnato la cultura del Paese. A iniziare da Malangatana, «artista per la pace» per l’Unesco: usava l’arte come denuncia, militò nel Frelimo, fu imprigionato e torturato dalla polizia segreta portoghese. La sua casa con la facciata rosa decorata e i grandi «occhi» sul retro spicca tra le baracche del Bairro do Aeroporto.
Nell’atelier le pareti sono tappezzate dalle sue tele a tinte forti, con figure surreali di donne e uomini ammassati. «Vorremmo rendere queste opere fruibili per il pubblico e allestire una galleria» annuncia il figlio maggiore, Mutxhini Ngwenya. Quelle sulla guerra civile sono dominate dal rosso, le successive da colori più tenui, a rendere la calma di una pace ritrovata.
L’eroe per l’indipendenza
Arte e lotta per la libertà andavano di pari passo. A Chamanculo è nato uno dei grandi eroi dell’indipendenza del Mozambico: Filipe Samuel Magaia, immortalato con una statua di bronzo alta tre metri. Nella sua casa vive ancora la sorella maggiore, Marta: «Ci siamo salutati l’ultima volta quando dopo il servizio militare, partì per Beira per lavorare alle Ferrovie – racconta la donna, lucida 84enne, seduta in poltrona in un salotto pieno di cimeli. La Pide trovò le lettere che si scambiava con Edoardo Mondlane (il fondatore di Frelimo, ndr), che dalla Tanzania preparava la rivoluzione. Dopo essere stato arrestato tre volte, fuggì e raggiunse i compagni di lotta in Tanzania. Da lì ha viaggiato fino in Cina e in Russia per cercare appoggi. La Pide (polizia segreta portoghese, ndr) ci tormentava, ci perquisiva la casa, volevano sapere dove fosse mio fratello. Abbiamo saputo della morte di Filipe da un cugino che aveva sentito la notizia alla radio». Marta prende fiato e sospira: «Però non è stato ucciso dai portoghesi: è stato un compagno a sparargli un colpo in testa nel 1966 mentre stava tornando in Mozambico. Anni dopo ci hanno detto che ad ammazzarlo è stato Lorenzo Matola, un suo grande amico, anche lui di Chamanculo. E’ stato ucciso per questioni di potere, come accaduto a Eduardo Mondlale».
Nel caso di Filipe però le rivalità politiche si intreccerebbero a quelle di cuore: i ben informati qui dicono che lui avesse una liaison con Josina Mutemba, di cui era innamorato anche Samora Machel, che infatti la sposerà nel 1969, prima di diventare il primo presidente del Mozambico liberato e di convolare, sempre nel 1975, con Graca, la donna che oltre 20 anni più tardi diventerà la moglie di Mandela: Mozambico e Sudafrica hanno condiviso molto, anche le First lady. «Dopo la morte di Filipe, Samora si prese cura di mia madre, la invitava a casa sua» racconta Marta. In salotto foto antiche rivelano le strette frequentazioni della famiglia anche con Armando Guebuza, il generale di Freelimo che diventerà presidente: «Mia madre lo chiamava sempre per avere notizie del figlio in esilio».
Guebuza è finito negli ultimi anni al centro dello scandalo del debito nascosto. Il più grande ammanco nella storia del Paese è stato accumulatosi durante il suo ultimo mandato, terminato nel 2015. Suo figlio è risultato coinvolto ed è stato arrestato a febbraio. Un debito dovuto a quanto pare a calcoli errati sui tempi in cui sarebbero diventati profittevoli per le casse dello Stato i nuovi giacimenti di gas destinati a fare del Mozambico il Qatar d’Africa. «Se il Mozambico di oggi è quello per cui mio fratello ha lottato? Non credo. Anche se non penso che avesse idea di come guidarlo se avesse potuto. Probabilmente se fosse vivo continuerebbe a combattere per rendere il Paese più giusto”. A Nhlamankulo, distretto che un tempo ha lottato per la libertà oggi si continua a combattere per la dignità e dare voce ai sogni, come suggeriva Malangatana, e impresso sul murales.