di Andrea Porcheddu
È stato da poco in Kenya, Marco Martinelli, fondatore e anima del Teatro delle Albe di Ravenna. Da sempre attento alla pedagogia attraverso il teatro, Martinelli, con Ermanna Montanari e con tutta la compagnia, ha da tempo elaborato quel meraviglioso progetto chiamato “Non-scuola”, dedicato a giovani e adolescenti. Partita coinvolgendo gli studenti delle scuole di Ravenna nel 1991 (e da allora coinvolge circa 400 giovani ogni anno), la Non-scuola è stata invitata ovunque: a Scampia e a Chicago, a Dakar e Milano, ma anche in Francia, Brasile, Belgio e in diverse città italiane. A Napoli, in particolare, la Non-scuola ha avuto effetti straordinari: quel lungo viaggio sotto il Vesuvio è raccontato in un bel libro dal titolo Aristofane a Scampia, divertente e commovente. Ma gli esiti della Non-scuola sono stati sempre e ovunque dirompenti, coinvolgenti, appassionanti per energia e qualità.
Oggi, al lungo elenco di tappe fatte nel mondo con la Non-scuola, si può si può aggiungere il Kenya, dove Marco Martinelli – assieme a Laura Radaelli – ha avviato una nuova “classe” di questa generosa e unica pratica formativa. Invitati dalla Ong Avsi, i due hanno lavorato a Nairobi, accanto a Kibera, uno dei più grandi slum della capitale keniota. Naturale, dunque, chiedere a Marco Martinelli, in che condizioni di lavoro si sia trovato e quale situazione abbia trovato…
«Alcuni responsabili della Ong Avsi, di chiara matrice cattolica, avevano letto il mio libro Aristofane a Scampia e ne erano rimasti entusiasti. Già un anno fa mi hanno chiamato per chiedermi se eravamo interessati a “seminare” una Non-scuola in Kenya. Al momento dissi di no. Eravamo troppo impegnati tra produzioni, spettacoli, altre Non-scuole ma – non senza astuzia – mi hanno semplicemente chiesto di incontrarci e raccontarmi: e mi hanno steso! Di fronte alla realtà di Nairobi, al lavoro che fanno lì, non c’è calendario né produzione che tenga. Così, con Laura Radaelli, attrice e guida di nostri tanti laboratori, siamo andati giù. Proprio la situazione che ho trovato mi ha convinto che avevamo deciso bene. Nelle scuole pubbliche del Kenya i bambini sono picchiati regolarmente, come accadeva nella Londra di Dickens più di cento anni fa. Per fortuna, nelle scuole cattoliche, peraltro frequentate liberamente da tutti, da bambini e ragazzi di tutte le confessioni religiose, questo ovviamente non accade. E allora vedi una cosa incredibile: scopri che i bambini sono entusiasti, felici di stare in quelle scuola, dove trovano un pasto caldo, spesso per loro l’unico della giornata, e non sono picchiati. Scuole dove, insomma, viene rispettata la dignità dell’essere umano. Bambino o adulto che sia. Noi abbiamo lavorato anche con gli insegnanti, i maestri e le maestre, e con allievi delle scuole primarie e secondarie. Dunque in un ambiente, un luogo di grande felicità: ed è la scuola! Quella stessa scuola che noi “occidentali” pensiamo spesso come noia, che vede mal disposti i ragazzi che la frequentano. Là è il contrario: un luogo di felicità».
È cambiato il vostro approccio e il metodo di lavoro?
«Ci siamo subito resi conto, già al primo incontro, che non avremmo mai dovuto parlare di Non-scuola! Ma anzi che avremmo dovuto festeggiare la scuola proprio per come era. Abbiamo lavorato con 200 bambini e ragazzi, senza mettere paletti o prerequisiti. Come sempre facciamo, non diamo limiti alla provvidenza: chi vuole partecipa. Tutti quelli che vogliono, possono lavorare con noi. E lavoravamo dalla mattina alla sera, tutto il giorno, dividendo i partecipanti in 4 gruppi di 50 persone, spostandoci noi da una sede all’altra, anche per non farci travolgere subito dall’energia di 200 ragazzi scalmanati e pieni di vita».
E avete lavorato sulla Divina Commedia, come state facendo anche a Ravenna con la vostra compagnia. Dopo il bellissimo Inferno, che ha coinvolto tutta la città la scorsa estate, state preparando il Purgatorio. Ma che effetto, e che senso, ha avuto portare Dante a Nairobi? Che reazioni ci sono state?
«Il lavoro sulla Divina Commedia ci ha confermato quanto l’archetipo narrativo sia universale. Abbiamo parlato di un uomo che si perde in una foresta oscura, fatta di paura, disperazione, mancanza di senso della vita. Di come quell’uomo, nel momento in cui spera di esserne uscito, si trova divorato da belve feroci ed ha la forza di capire che non si salverà da solo. Questo è il grido di Dante: miserere di me. La sua invocazione al Creato, al mondo, all’Altro, ha effetto: arriva qualcuno e gli tende una mano, lo aiuta a uscire alla luce. Dunque, abbiamo semplicemente raccontato questa storia, senza il bisogno di affrontare i versi danteschi, cosa che non avrebbe avuto senso. Abbiamo lavorato sull’improvvisazione, coinvolgendo attivamente tutti, dai bambini ai ragazzi».
A che punto è il lavoro? Quali sviluppi?
«Abbiamo creato già tutto il prologo e il primo canto: la foresta è diventata una giungla, le belve sono diventate un branco! Ogni ragazzo poteva giocare immaginando belve reali o fantasiose, oniriche. E veramente parlare di “inferno”, in quello slum, è fuori da ogni metafora. La realtà è un incubo. Passare per Kibera e vedere i bambini nell’immondizia è choccante. Ma dobbiamo fare i conti con quella realtà: è il nostro mondo non è un altro pianeta. Eppure in questo inferno possiamo vedere il paradiso di bambini, pieni di vitalità, aggrappati alla vita, sorridenti, carichi di un senso profondo di gioia. È qualcosa che va ben al di là del nostro vivere quotidiano, della norma dell’occidente. È un’esperienza da fare. Non c’è documentario o film che possa raccontare quella dimensione: occorre essere lì, nell’inferno, per capire. Proprio come fa Dante: mettere il proprio corpo, lasciare la propria orma per capire».
Come si svilupperà il progetto?
«Abbiamo creato un gruppo di “guide”, ovvero degli operatori del luogo che potranno continuare e sviluppare il lavoro nei prossimi due mesi, quando noi saremo in Italia. Dopo il prologo, si tratta di creare i gironi dell’inferno. Dante ci dà indicazioni validissime. A partire dagli avari, colpiti dalla malattia dell’attaccamento al denaro, alla maledetta lupa: qualcosa che risuona nell’occidente così come risuona in Kenya. Poi saranno gli stessi ragazzi a dire quali sono i “dannati”, i condannati all’inferno. È già emerso il tema della violenza sui bambini. Il bastone del maestro a scuola, e anche la terribile e diffusa violenza sessuale. Proprio in questi giorni c’è stato il caso di due italiani, arrestati a Malindi. Non si tratta purtroppo solo di rivoltante “turismo sessuale”; perché la tragedia è anche all’interno della realtà keniana, ogni giorno. Poi non possiamo dimenticare che il Kenya vive una condizione di rapporti tra tribù molto complessa, con odii etnici aspri, legati alle fazioni politiche. Anche questo, per forza di cose, risuonerà nel nostro percorso. Ora stanno lavorando le guide, sono entrati subito in sintonia con il nostro modo di agire. Noi torneremo in maggio, per una ulteriore tappa, e a ottobre debutteremo con la Divina Commedia in Kenya. Nel frattempo continuiamo a elaborare il nostro Purgatorio, per il 2019: è la cantica dell’amicizia, della poesia e dell’arte e vi troveranno spazio anche Majakovskij, Baudelaire e altri poeti».
Insomma, il teatro può fare qualcosa?
«Come Albe diciamo da trent’anni che si tratta di “Piantare il melo anche se scoppiano le bombe”. O se sono appena scoppiate. È, la nostra, un’irriducibilità dell’anima. Quei bambini keniani sono felici di averci lì, a casa loro, felici di giocare insieme, di cantare, danzare. C’è un patrimonio linguistico e culturale straordinario in quel Paese. Per questo lo fai, lo facciamo: perché simili esperienze continuino a illuminare il tuo giorno, e di quelli che puoi incontrare in cammino. Il mondo è violenza da sempre: nonostante i fallimenti delle ideologie e delle istituzioni, questi incontri restano e non ce li può togliere nessuno. Ecco cosa può fare il teatro».
Perché c’è questo condiviso, diffuso bisogno di Non-scuola? Che idea si è fatto dopo tante e diverse esperienze nel mondo?
«C’è bisogno di teatro, teatro nel senso dionisiaco del termine. Quando i ragazzi scoprono Dioniso, la Non-scuola intesa in questo modo, non possono più farne a meno, perché risponde a un bisogno profondo, radicato in ciascuno di noi. Non è questione di “forma”, ma qualcosa di antropologico, che ha a che fare con l’umanità, soprattutto nell’infanzia e nell’adolescenza. Anche se si avverte un bisogno più ampio, capace di superare le generazioni. Insomma, il teatro è sempre un magnifico esercizio di cittadinanza vera, in una situazione in cui invece la “politica” sembra essere in grande debito di ossigeno».
Il Teatro delle Albe ha una lunga e felice vicinanza all’Africa. Dalla fine degli anni Ottanta vi siete sempre confrontati con l’immigrazione, con la cultura proveniente dall’Africa, in un dialogo aperto, franco, creativo. Fino alla creazione, a Diol Kadd, in Senegal, di una specie di “succursale” del vostro teatro ravennate, grazie al compianto attore Mandjaje Ndjaje, recentemente scomparso…
«Sì, è un’avventura centrale del nostro immaginario, in un percorso che è sempre stato nel segno di Dioniso, più che nel segno delle Ong o del “teatro sociale”, una etichetta questa che ci sembra troppo stretta. È Dioniso che va interpellato, è lui la forza dell’anima. La morte di Mandjaje è stata un colpo duro: aveva costruito qualcosa di bellissimo, un teatro nel suo villaggio di origine, Diol Kadd in Senegal. Per questo, oltre che in Kenya, torneremo anche lì: a maggio debuttiamo con un “Cappuccetto rosso”, destinato a un pubblico di bambini diretto da Alessandro Arniani, oggi attore e regista che è “nato” proprio da una delle prime Non-scuole. A interpretarlo saranno due attori giovanissimi senegalesi di Diol Kadd, e il tutto è organizzato dal figlio di Mandjaje. Insomma, viviamo una bellissima nuova ondata, un rinnovamento, un passaggio di testimone tra le generazioni. Ci sono le condizioni perché questa storia africana e romagnola continui».