Libano, tra i siriani sopravvissuti alla guerra nelle tendopoli “informali”

Data 10.05.2016
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Reportage. Al confine con Israele gli insediamenti non riconosciuti dove il flusso migratorio della popolazione in fuga dalla guerra preme e mette sempre più in crisi un paese con 4 milioni di abitanti, grande come l'Abruzzo, che ospita (e tollera) ormai quasi 2 milioni di profughi. I progetti di sostegno della Fondazione AVSI.

di CARLO CIAVONI - video e foto di MARCO PALOMBI, La Repubblica.it

9 maggio 2016 - Libano, la foresta dei rifugiati taglia-boschi

Nel Sud del Libano, al momento ci sono circa 35.000 persone - siriani, iracheni in prevalenza - che hanno perso la casa in seguito ai bombardamenti oppure che hanno dovuto abbandonare tutto per salvare la loro vita e quella della propria famiglia. L'emergenza non sembra diminuire nelle zone della Siria ancora controllate dai tagliatole del sedicente stato islamico. Tra i progetti messi in atto da AVSI - una Ong italiana che lavora in Libano, Iraq, Giordania fra i rifugiati - c'è il “cash for work”: opportunità di lavoro per profughi, concordati con le autorità libanesi, per interventi di pubblica utilità. Uno di questi progetti viene realizzato nella foresta di Ebl el Saqi, a una decina di chilometri da Marjayoun, a sud del Libano.

3 maggio 2016 - Tra i siriani sopravvissuti alla guerra nella tendopoli "informale"

di Carlo Ciavoni

MARJAYOUN (Libano meridionale) – Qui, dove otto secoli fa approdavano i cristiani in fuga dalla Siria del Sud, nel 2006 arrivarono gli israeliani per quella guerra durata 34 giorni, in risposta ai razzi katyusha di Hezbollah e al rapimento di due militari di Tzahal, le forze armate d'Israele. Adesso da queste parti si convive sotto l'occhio vigile del contingente militare spagnolo della missione Onu dell'UNIFIL. A Marjayoun, c'è una Cattedrale, quella di San Pietro, ancora lì da secoli, nello stesso posto dove fu costruita. Convive, come in tutto il Libano convivono, con i luoghi musulmani, in una baraonda di cupole e minareti, che rimandano ai tempi remoti, quando la vicina fortezza di Beaufort, arroccata su un monte, alla fine del 1.100 fu testimone di battaglie sanguinose tra Saladino, lo strenuo oppositore alle crociate europee, musulmano-sunnita, e i cristiani che qui cercarono riparo, in fuga dalla Siria.

Le sagome sgangherate della baraccopoli. Ma oggi la vera novità di questo paesone, a un centinaio di chilometri a sud di Beirut, aggrappato su una collina a 750 metri d'altezza, è che la popolazione musulmana sciita aumenta a vista d'occhio e quella cristiana diminuisce, sebbene questo, almeno in apparenza, non sembra aver cambiato il suo volto. Solo a qualche chilometro da qui, a ridosso dell'estremo Nord israeliano, quando sembra di toccare i tetti delle case di Metulla, ultimo villaggio dove sventola la bandiera con la Stella di David, ecco apparire le macchie multicolore e le sagome sgangherate delle baraccopoli popolate dai siriani, che continuano ad arrivare dal confine Sud del loro paese.

"Informali", dunque quasi invisibili. Sono donne e bambini, che per lo più hanno meno di 10 anni, sistemati in campi “informali”, non riconosciuti dal governo libanese. Arrivano da Aleppo, Raqqa, Damasco. Sono ex commercianti, contadini, allevatori, insegnanti. A farsi carico del loro destino sono diverse organizzazioni umanitarie, una tra le altre è la Fondazione AVSI, Ong italiana impegnata in 26 insediamenti qui in Libano, con progetti di aiuto dove lavorano in tutto circa 80 persone, tra locali ed espatriati. Il lavoro principale tra i profughi siriani è sui temi dell'educazione e della protezione dell'infanzia. Sono coinvolti circa 900 bambini siro/libanesi, 75 tra insegnanti ed assistenti sociali e circa 300 nuclei familiari. Attività che spaziano dal recupero scolastico, alla formazione per il personale docente delle scuole dell'area, all'assistenza psico-sociale per le famiglie dei minori più toccati dai traumi della guerra.

Non resta che arrangiarsi. Percorsi pochi chilometri dalla cittadina libanese, lungo una bella strada, tra vallate e ampi spazi verdi, si sfiora il confine israeliano, pattugliato dai blindati bianchi dell'UNIFIL. Sul fondo di una discesa, all'improvviso, appaiono le tendopoli dei profughi siriani, quello di Marj El Kohkh e quello di Ouazzani. Le stime ufficiose parlano di circa 2 milioni di persone, penetrate in Libano, 4 milioni di abitanti - grande quanto l'Abruzzo - e più o meno visibili dai “radar” del sistema d'accoglienza umanitaria internazionale. In uno dei ripari “informali” dalla guerra più devastante degli ultimi 30 anni, i siriani si arrangiano come possono, un po' con quello che è rimasto loro, un po' con l'assistenza, ma anche lavorando qua e là, aiutati da famiglie libanesi della zona, che fanno da garante per la loro permanenza.

Il germe dell'abuso. C'è chi fra i negozianti fa loro credito; qualcun altro addirittura regala cibo già cucinato; altri ancora trovano diverse forme di sostegno spontaneo e gratuito. “Siamo cristiani – dice un robusto rosticciere di Marjayoun, che mostra orgoglioso una grossa croce tatuata sul braccio – siano o no tutti tutti fratelli?”. E se gli si chiede: da un connazionale musulmano ti saresti aspettato lo stesso aiuto, a parti invertite? Lui risponde palesemente insincero: “Sì, certo in Libano si usa così”. Si capisce allora che quella di cui i siriani godono è una forma d'aiuto che contiene il germe dell'abuso. E lo si apprende dai racconti di alcune persone che vivono nei campi. Molti di loro finiscono in situazioni drammatiche, dolorose, perché alcuni libanesi senza scrupoli, che approfittano del loro status “informale”, li rendono schiavi e sotto la minaccia di essere privati della garanzia, loro unico appiglio per non tornare a sopravvivere sotto le bombe.

Marj El Kohkh e Ouazzani. Non sono che luoghi di rifugio identici a tanti altri. Non conta descriverli ancora: l'aria pesante che mozza il fiato sotto le tende quando fa caldo e il gelo paralizzante, quando fa freddo; la polvere, o il fango; i pianti dei bambini più piccoli, o le grida giocose dei più grandicelli che giocano a pallone; gli sguardi oscuri di rabbia, stanchezza delle persone, o gli occhi bassi della vergogna e della rassegnazione. In qualche modo, si prova a difendersi dal senso di impotenza, che si avverte respirando gli odori forti che emanano dalle capanne di plastica e pezzi di legno, immaginando queste persone, che hanno smesso di misurare il tempo, come in set cinematografico in movimento: da Sabra e Shatila a Beirut, al campo di Goudebou, in Burkina Faso, al confine con il Mali; oppure a Dadaab, in Kenia sul confine somalo; o ancora a Dakhla, nel sud ovest algerino, nel nulla del deserto del Sahara. Pensarli così, aiuta un po', perché sembrano più comparse di un film tragico, che vittime vere di un ordine mondiale, in tanti ad averlo capito, ma in pochi a volerlo davvero cambiare. Il tempo a non si misura più, è vero. Ma quello passa e lascia segni.

 

20 aprile 2016 - Libano, viaggio nei campi profughi siriani

Un viaggio nel sud del Libano, attraverso 26 campi profughi siriani, nei quali vivono circa 1500 pers

Libano, tra i siriani sopravvissuti alla guerra nelle tendopoli "informali"

one, affidati alla tutela delle Organizzazioni umanitarie internazionali come Avsi.

I bisogni all'interno di questi campi sono moltissimi, come racconta una operatrice, dagli aiuti materiali all'educazione dei bambini, al sostegno alle donne. I profughi sono sostenuti soprattutto nella ricerca di una occupazione, perché possano rendersi in parte autonomi.

La scuola sembra essere l'unico elemento di contatto fra le autorità libanesi e la pesante realtà dei rifugiati. Da poco più di un anno, le scuole pubbliche libanesi sono state aperte anche i bambini del campo, con turni pomeridiani.

Alice Boffi, capoprogetto nel campo di Ouazzani, ci accompagna nella visita, illustrandoci le varie attività di supporto come quello psico-sociale (collaborazione con le istituzioni locali, prima assistenza ai bambini nei campi profughi, attività ricreative con scopo educativo).

Un'altra attività importante è quella rivolta alle donne e alla genitorialità, come ci spiega Aldo Gianfrate. Una strategia che si basa sulla volontà di rispondere non solo ai bisogni primari immediati, ma sul farsi anche compagni di un percorso di crescita dei profughi, per aiutarli a recuperare la loro dignità