di Francesca Caferri
La chiamano la generazione perduta: quella che a causa della guerra non ha più accesso all'educazione. Ora però chi è fuggito in Libano ha una chance in più (grazie ai soldi della Ue).
OMFUN (Libano). A tredici anni Mahmud è un meccanico provetto: con orgoglio fa vedere le mani con le unghie ancora sporche di grasso. «Vado tutte le mattine. Il padrone dell'officina dice che con i motori sono bravo, mi lascia lavorare sulle macchine anche da solo» racconta. Accanto a lui, il fratello minore Ab dallah, undici anni, annuisce. Le mani sono più pulite, ma comunque segnate. «Io sono elettricista, mi sporco di meno» spiega. Mahmud e Abdallah sono nati ad Aleppo, la seconda città della Siria, ma vivono in Libano da tre anni. «Siamo scappati durante una pausa dei combattimenti» racconta Faha, la mamma: «Casa nostra era stata distrutta, avevamo fame e freddo. Mio marito in passato aveva già lavorato qui e così abbiamo speso tutti i nostri risparmi per fuggire. Ma non è facile, qui tutto è più caro e dobbiamo pagare l'affitto. In Siria i nostri bambini non lavoravano, qui sì». Ma nonostante tutto, Mahmud e Abdallah sono fortunati: quando arriva l'ora di pranzo smettono di lavorare, si lavano e raggiungono la villetta adagiata sul fianco della montagna.
Qui, un progetto delle ong Terre des Hommes, Avsi e War Child finanziato con i soldi del Madad Fund, il Regional Trust Fund europeo creato nel 2014 per rispondere all'emergenza siriana, consente a loro e ad altre decine di bambini che hanno lasciato la scuola a causa della guerra di ricevere un'educazione informale: sostegno in vista del rientro in classe, matematica e arabo, ma anche inglese, disegno e supporto psicologico per i più traumatizzati e per le loro famiglie.
«Cerchiamo di portare avanti il percorso scolastico di questi bambini, ma anche limitare l'impatto di fenomeni come lavoro minorile e matrimoni precoci» spiega Davide Amurri, responsabile Avsi per il Libano. Mahmud e Abdallah fanno parte di quella che le organizzazioni internazionali chiamano la "generazione perduta": bambini e giovanissimi nati o cresciuti durante i sette anni di guerra che hanno sconvolto il Paese e che a causa del conflitto hanno perso la possibilità di avere un'educazione normale. A guardarli da vicino, i numeri di questo fenomeno mettono i brividi: secondo l'Unicef, all'interno del territorio siriano ci sono 1,75 milioni di minori fra i cinque e 17 anni che non vanno a scuola, oltre agli 1,35 a rischio abbandono a causa delle condizioni in cui si trovano le famiglie o della distruzione delle strutture.
La situazione non è migliore nei Paesi che hanno accolto la maggior parte dei 6 milioni di siriani (sui 22 della popolazione pre-guerra) fuggiti all'estero. Ci sono più di 450 mila bambini siriani rifugiati in Libano e 240 mila in Giordania: il 60 per cento di loro, stima l'agenzia Onu per i rifugiati Unhcr, non ha accesso a un'educazione formale. Mancanza di documenti da parte delle famiglie, posti limitati nelle scuole, lontananza dei campi profughi dai centri abitati sono alcune delle cause. Ma anche, in Libano, la regola che vieta a chi ha perso più di tre anni consecutivi di lezioni di accedere alle scuole pubbliche senza passare per i corsi di recupero. Con il conflitto che si appresta ad entrare nel suo ottavo anno e la vittoria sempre più chiara di Bashar al-Assad e dei suoi alleati di Russia, Iran e Hezbollah, il destino di questi bambini è centrale per determinare come sarà la Siria del futuro.
Non a caso l'educazione è uno dei pilastri su cui poggia la strategia della Unione europea di fronte alla crisi: 1,5 miliardi di fondi stanziati dal 2014 attraverso il Madad Fund per coprire educazione appunto, ma anche salute, assistenza alle comunità, formazione professionale e accesso all'acqua pulita. Con questi soldi, la Ue ha sostenuto Paesi come la Turchia, la Giordania e il Libano - che da solo ospita più di un milione di rifugiati siriani su una popolazione totale di 4 milioni di abitanti - e consentito che aprissero le scuole pubbliche anche nel pomeriggio, creassero classi extra riservate ai siriani, assumessero insegnanti dedicati e assistenti, fornissero i mezzi di trasporto necessari per portare in aula i bambini dai campi, spesso sperduti in zone isolate e senza servizi.
I 12 milioni di euro dedicati al progetto Back to the Future, per esempio, hanno raggiunto più di 98 mila bambini fra Libano e Giordania. Quanto tutto questo possa essere importante lo racconta la storia di Kamal, 11 anni, originario della Ghouta, la provincia alla periferia di Damasco dove i combattimenti sono stati fra più feroci dell'intero conflitto. Quattro anni fa, insieme ai suoi tre fratelli e ai genitori, è fuggito in Libano e ora vive in una tendopoli della valle della Bega', la zona di confine fra il Paese dei cedri e la Siria, dove la concentrazione di rifugiati è la più alta. Il padre di Kamal è un tecnico ospedaliero specializzato in radiologia: un uomo istruito che in Siria aveva sempre fatto dell'educazione dei figli una priorità. Ma che in Libano, piegato dall'impossibilità di trovare un impiego e dalla mancanza di soldi, si era ridotto a mandare i bambini a lavorare nei campi. Da quando la scuola locale ha attivato un servizio di trasporti per i bambini siriani, ogni pomeriggio Kamal è tornato in classe, pur continuando a dare una mano nelle campagne la mattina: e da poco ha vinto un premio riservato ai migliori alunni.