di Francesco Semprini - La Stampa
Al confine con il Brasile dove le bande uccidono chi prova a rifornirsi di cibo e medicine. Indigeni Pemon cacciati dai loro villaggi per appropriarsi delle risorse di oro e diamanti.
«Quello laggiù era un paradiso, oggi è la terra di nessuno, una landa stuprata dai miliziani di Nicolas Maduro». Quando parla Aldino Alves Ferreira indica l'orizzonte pennellato di arancione dal tramonto che si adagia sulla collinetta verdeggiante, dove spiccano segnaletiche bianche con scritto Brasile da un parte, Venezuela dall’altra. Oltre confine le autorità brasiliane e l’Onu hanno allestito campi profughi Aldino è il «cacique» (il leader) di una tribù Pemon della terra chiamata «Fonte della pietra bianca», un’etnia indigena stanziale che vive a Nord dell’Amazzonia, a cavallo dei due Stati. In quel tratto di confine considerato un paradiso terrestre violato, oggi scorre il sangue indigeno versato a causa delle mattanze di milizie e collettivi al soldo del governo di Caracas. Bande inviate al confine Sud-orientale per boicottare gli aiuti umanitari dal Brasile e appropriarsi delle risorse naturali di cui sono ricche queste zone, a partire da oro e diamanti. Saccheggi in violazione delle leggi che vietano lo sfruttamento nelle zone che lo stesso Hugo Chavez catalogò come «riserve» inviolabili.
Fuga di massa
Ma oggi il Venezuela è un Paese senz’anima, e Maduro è un leader senza popolo, affamato di ogni frattaglia necessaria a tenere in vita un governo appeso a fili tirati da lontano.
È affamato al punto tale da tollerare carneficine come quella iniziata il 23 febbraio - spiega il cacique - i nostri fratelli Pemon sono dovuti fuggire oltre confine, sono arrivati qui da noi 235 famiglie, circa 900 persone
Aldino Alves Ferreira, leader della tribù Pemon
Una dura prova di resilienza per la sua comunità composta da appena 267 anime, per la quale sono giunte in soccorso le Forze armate brasiliane e l’Alto commissariato per i rifugiati (Unhcr), ovvero le Nazioni Unite. «Con la scusa dei disordini al confine durante il blocco degli aiuti umanitari le milizie sono entrate a San Francisco de Yuruaní, ai piedi del Monte Roraima, uccidendo e portando via chiunque si opponesse - racconta il cacique - La mattanza è proseguita a Santa Elena de Uairén, una comunità che oggi non esiste più».
La tragedia di questi popoli, a cui Arthur Conan Doyle si è ispirato per il suo «Mondo Perduto», è l’appendice lontana di una crisi che viene prevalentemente identificata nelle immagini provenienti dalle città del nord. E pertanto ai più sconosciuta. Per toccarla con mano attraversiamo il confine su una «trocha», i sentieri clandestini percorsi ogni giorno da centinaia di venezuelani a piedi, in auto, o in sella a cavalli emaciati.
C'è chi fugge, chi si improvvisa frontaliero e arriva a Pacaraima, primo centro in terra brasiliana, per comprare generi essenziali, riso medicinali e pneumatici. I più intraprendenti ne rivendono una parte alla «rodoviaria» di Santa Elena, la fermata delle corriere trasformata in un mercato parallelo. Solo dopo aver elargito una mancia all’esercito bolivariano che, approfittando della chiusura del confine (ora temporaneamente riaperto), predispone posti di blocco su ogni «trocha». «Chiedono da 50 a 200 reais brasiliani, a seconda del carico, merci o persone», ci racconta José Lopez. Lui e la moglie Lorena lavoravano con i turisti diretti al monte Roraima, oggi trasportano cibo e medicinali da una parte all’altra della frontiera. Sono loro a portarci a Santa Elena. José, nonostante i suoi 27 anni, è stato già funzionario di polizia e insegnate di legge all’università, il suo corpo è «mappato» da cicatrici di ogni genere, testimonianze indelebili dei tanti conflitti a fuoco:
«La delinquenza nel nostro Paese è devastante». La perdita di un rene e una pallottola nel cuore lo hanno costretto al congedo: «Il governo non mi ha aiutato, non avevo copertura ospedaliera, lo Stato mi ha abbandonato». «Questo è un socialismo che uccide i più deboli», dice Lorena, attivista come quelli che si vedono nelle manifestazioni di Caracas, col volto coperto in prima linea nelle sassaiole di protesta. O come quella del 23 febbraio al confine con Pacaraima: loro c’erano. «Gli aiuti umanitari dovevano entrare, la guardia nazionale lo ha impedito».
La repressione
«Sono arrivati i blindati e hanno iniziato a lanciare gas lacrimogeni, c’erano bambini, anziani, persone disabili, tutti aspettavano gli aiuti. Ma loro hanno impedito l’ingresso, c’erano morti per strada, portavano via la gente come fossero cani rabbiosi. Di alcune persone non si è saputo più nulla».
Al popolo italiano chiedo di unirsi a questa causa e di starci vicini in questa crisi umanitaria, il vostro sostegno è importante, ci sono tanti italiani qui che stanno vivendo e sopravvivendo a questa tragedia, quanto ancora potranno resistere?
Josè, profugo venezuelano
I posti di blocco
La magnitudo della crisi viene raccontata dagli scaffali vuoti dei negozi, come il bar nel centro di Santa Elena, la cittadina della mattanza. Ci arriviamo dopo aver superato almeno tre posti di blocco e altrettante richieste di gabelle da parte di militari e indigeni collusi, spesso costretti per garantire un pasto ai propri bambini. Le strade sono desolate, i pochi rimasti si barricano in casa, ma c’è qualcuno che ha voglia di urlare la propria rabbia. «Al governo conviene regolare le frontiere per consentire ai militari di fare affari coi posti di blocco, se non abbiamo soldi si prendono il cibo, e Maduro incassa il loro appoggio», racconta Selvana Maguampi, «pemon» di Santa Elena.
Gli improvvisati gabellieri preferiscono essere pagati in valuta brasiliana, con un’inflazione al milione per cento il bolivar non vale più nulla, come capiamo dalla pila di banconote che ci vengono consegnate quando ci danno il resto di un caffè (per altro di pessima qualità): un reais (circa 25 centesimi di euro) equivale a 1200 bolivar. «È una crisi che il governo vuole tappare con un dito prosegue la donna -. Io non sono di nessuna opposizione, sono solo una venezuelana, ma chiedo al presidente Maduro che si metta una mano sul cuore e se ne vada per dare un’opportunità a qualcun altro capace di rendere migliori le nostre vite. E a Dio chiedo di aver misericordia di questo Paese». Il lamento di Selvana è un’eco al «confine dei dannati».
Ci rimettiamo in marcia per attraversarlo di nuovo, al contrario, questa volta a piedi costeggiando la pista del vecchio aeroporto, superando fossi e reticolati di filo spinato. Incontriamo una signora distinta, colpisce il portamento, è un’insegnante. «Dobbiamo venire in un altro paese per comprare da mangiare, siamo alla fine. È tutto complicato, soprattutto sopravvivere». C’è chi si ferma a cuocere del riso su fuochi improvvisati, senza lesinare invettive contro Maduro, altri inneggiano a Juan Guaidò. C’è chi si rivolge a Unhcr, che dal 2015 con l’acuirsi della crisi, gestisce l’emergenza con gli «abrigo», centri di prima accoglienza contigui alla grande base dell’Esercito brasiliano. C’è chi riparte subito per iniziare una nuova vita, come Carlos Munoz, ex militare costretto a fuggire: «Con lo stipendio che avevo la mia famiglia non poteva neppure mangiare».
I disertori
I militari in fuga sono l’altro volto della tragedia venezuelana, disertori, congedati e veterani. Li incontriamo nel cammino verso Boa Vista, dove nell’ambito dell’«Operazione Accoglienza», l’Italia si è ritagliata un ruolo di primissimo piano, sia con l’intervento dell’Ambasciata a Brasilia e lo stanziamento di 400 mila euro da parte del governo, sia con AVSI, fondazione che si occupa di progetti di cooperazione allo sviluppo in 31 Paesi.
In Brasile gestisce, in coordinamento con le forze armate e Unhcr, quattro centri di accoglienza (un quinto in arrivo a Pacaraima), rifugio per circa 1.500 persone, e il programma di «interiorizzazione», l’inserimento di rifugiati venezuelani in aziende che operano in Brasile. Programma che, nella versione pilota, ha visto l’assunzione a Salvador di nove rifugiati nel gruppo peruviano Industrias San Miguel, produttore di bibite, e, per la successiva fase, punta al collocamento di altri sessanta.
Joaquim, invece, ha trovato un’occupazione come carpentiere nel campo di San Vincenzo: è un ex membro della «Quinta Repubblica», uno dei protagonisti del fallito golpe del 1992. «Ero infiltrato nella Carlota, unico sopravvissuto di 37 golpisti, hanno giustiziato 23 compagni, gli altri sono spariti. Mi sono salvato perché chi mi doveva uccidere conosceva mio figlio e mi ha tirato fuori dal carcere». Joaquim fugge in Colombia ed entra nelle Farc, la guerriglia marxista dove si occupa di controinformazione e insegna ai contadini come produrre alimenti biologici: «Era un modo di fare politica». Quando Chavez prende il potere torna e si arruola, occupandosi della sicurezza di deputati e alti ufficiali. «Hugo non era male, aveva umanità, Maduro non è un rivoluzionario, è un opportunista, per questo me ne sono andato».
In un altro campo, il Rondon 1, incontriamo Charles Juan Delgado: «A 18 anni ho deciso di entrare nelle forze armate ma già con Chavez l’esercito si era politicizzato, ho preferito proseguire gli studi. Sono tornato nelle forze armate da laureato perché penso che servire la patria sia il più nobile dei mestieri, però mi sono accorto che con Maduro era ancora peggio, pensa solo a se stesso, pensa ad arricchirsi. Da due anni sono in Brasile, appoggio Guaidò, è un’opportunità per il mio Paese dopo venti anni di dittatura». Delgado però rifiuta la soluzione di forza: «L’ultimo rimedio sono le armi, bisogna vincere col dialogo, una guerra cancellerebbe il Venezuela».
Chi si sente ancora la divisa cucita addosso è il tenente Carlos Linares, 22 anni di servizio, disertore: «Il popolo sta attraversando una grave crisi, noi militari abbiamo il compito di difendere la nazione tanto dall’esterno che all’interno contro il nostro stesso presidente, Maduro è inetto». Sulle alternative però Linares è scettico.
Ho lavorato con i politici, conosco la collusione che esiste tra governo e una certa opposizione, l’evidenza dimostra che Guaidò non va da nessuna parte. L’ultima speranza è la ribellione del popolo venezuelano.
Carlos Linares, ex-tenente dell'esercito venezuelano