Le schiave del Congo. Reportage su Corriere della Sera

Data 04.04.2017

GOMA (Congo) – Fuggita di casa quattordicenne «perché non c’era nulla da mangiare e nessuna speranza per il futuro» attirata dalle milizie armate che offrono «pane e dignità» tra i loro campi di capanne nel folto della giungla. Ma poi subito violentata dai suoi comandanti, trattata da «Kubaka», schiava sessuale, per lunghi mesi, sino a che, dopo il periodo di addestramento militare, non si affranca e assume un ruolo più autonomo. Quindi, fortunosamente liberata assieme al figlio di un anno dai militari congolesi in cooperazione con il contingente Onu e inserita nei programmi di riabilitazione per le ragazze-soldato. A 18 anni appena compiuti Esperance Francine non nasconde il desiderio di tornare nella foresta con le milizie, «dove almeno posso cibarmi ogni giorno, c’è chi mi dà aiuto e trovo la solidarietà del gruppo».

Diverso è il racconto di Solange Zawadi, anche lei da poco maggiorenne, a sua volta rapita neppure quindicenne da un gruppo di banditi, violentata ripetutamente, spesso da più uomini la stessa notte, utilizzata per trasportare le merci rubate, affidata quindi al «capitano Sambambi», 45 anni, suo «padrone» con diritto di vita e di morte. Oggi lei si dice «felicissima» di essere stata liberata assieme al suo bambino di ormai tre anni nato tra i suoi persecutori.

Come del resto è del tutto particolare la vicenda di Emakilè, arrivata a Goma da meno di una settimana e ancora visibilmente traumatizzata. Tre anni fa era andata con un’amica della zona di Katala, nel nord Kivu, con l’intenzione di unirsi ai Mai Mai, i gruppi di auto-difesa dei villaggi nelle regioni della guerriglia. Le due invece cadono nelle mani delle Fdlr (le milizie di guerriglieri del Ruanda), che subito le inquadrano nei loro programmi di addestramento. «Abbiamo imparato a sparare, a smontare e pulire i fucili, a tirare le granate e compiere imboscate», ricorda. Un anno di lavoro duro, durante il quale però entrambe sono «bambole da gioco» per i soldati. Di giorno soldatesse a tutti gli effetti e di notte oggetti di piacere.

«Ci prendevano a turno. Prima i comandanti, quindi i loro sottoposti. Noi non potevamo opporci, saremmo state picchiate e poi prese con maggior durezza. Alfrede, una mia amica sedicenne, ha provato a scappare ed è stata uccisa. Uno dei momenti più rilassati era dopo la colazione della mattina. Gli uomini, oltre trecento, partivano per le razzie nei villaggi, oppure per le battaglie contro le altre milizie e noi settanta donne, in maggioranza tra i quindici e diciassette anni, ci riunivamo lungo il ruscello per preparare il pranzo collettivo», spiega. Alla fine dell’addestramento ottiene maggior rispetto. S’innamora di un soldato ruandese 22enne di nome Bosco. «Ci siamo voluti bene, stavamo sotto lo stesso tetto come marito e moglie. Ma ben sette dei suoi superiori hanno ripreso a violentarmi. Bosco ne soffriva, ma non poteva reagire. Mi sono ammalata, sono infetta, ho l’Aids. Così, è stato lui stesso a consegnarmi di nascosto dai suoi capi agli ispettori del Monusco (il contingente Onu, ndr.). Mi ha accompagnato fuori dalla foresta e mi dato il suo mitra affinché potessi dimostrare che ero combattente».

Le loro storie sono l’eco drammatico delle infinite tragedie che ammorbano l’Africa profonda. Bambini soldato, Kadogo nei dialetti locali: almeno 60.000 nel solo Congo (ma c’è chi dice 100.000), di cui oltre il 35 per cento bambine, in grande maggioranza concentrati tra i circa 400 gruppi armati delle regioni nord-orientali del Kivu, quelle affacciate ai grandi laghi, alle foreste verso il Ruwenzori, alla giungla impenetrabile resa celebre dall’epopea di Livingstone e Stanley, alle ingiustizie della colonizzazione più cinica e le sue conseguenze tutt’ora alimentate dalle violenze e la corruzione endemica dei governi locali.

«Il fenomeno è destinato a peggiorare. In genere i minorenni sono ottimi soldati. Obbediscono docili, sparano, uccidono, rubano senza fare troppe domande. In Congo è normale utilizzarli nella difesa dei villaggi. Bambine e bambini, senza differenze», spiega a Goma il 42enne John Muhindokalemeko, responsabile alla sicurezza dell’Avsi (Associazione Volontari Servizi Internazionali), una delle organizzazioni non governative italiane che dai primi anni Settanta lavora anche in Africa con il contributo dei finanziamenti Unicef. Grazie a loro abbiamo potuto parlare con le ex ragazze-soldato maggiorenni. I minori li abbiamo contatti invece in modo indipendente. Il grido d’allarme lanciato da John coinvolge anche noi europei. «Tra novembre e gennaio prossimi dovrebbero tenersi le elezioni in Congo. Ma tanto lascia credere che il presidente Josef Kabila per l’ennesima volta proverà a rinviarle. Così, sono inevitabili nuovi rivolte e conflitti. Crescerà il ruolo delle milizie e ciò incrementerà il numero dei profughi. Sono ormai già decine di migliaia ogni anno, anche se nessuno li censisce, non esistono dati ufficiali a Kinshasa. E sempre di più si uniranno ai flussi di persone che dai Paesi sub-sahariani mirano alle coste della Libia verso l’Italia», aggiunge lui.

Un nuovo enigma anche per i nuovi piani italiani (ed europei) per il controllo dei migranti. Come potremo insediare i centri per selezionare le richieste di asilo nei Paesi di partenza instabili e violenti? Le generazioni di minori-soldato vanno inserite nella categoria di «migranti economici», oppure sono altro? A complicare le cose per i diretti interessati sono le ingerenze dei Paesi vicini come il Ruanda, sempre motivato a sfruttare le risorse naturali e minerarie del Congo, oltre al proliferare del fondamentalismo islamico, specie dall’Uganda. «Quando i soldati con la lunga barba nera ci hanno portato nella giungla subito siamo stati costretti a pregare per Allah in una piccola moschea fatta di tronchi e fango. Noi bambini cristiani siamo stati convertiti. Chi non pregava veniva picchiato, non poteva mangiare», testimonia a proposito David, 9 anni. Rapito con la famiglia nel 2013 dal loro villaggio nel nord del Kivu, subisce ben presto l’indottrinamento dei suoi guardiani, tutti militanti nella Adf/Nalu, nota milizia di jihadisti ugandesi. Due anni fa è stato liberato dai soldati di Kabila durante uno scontro a fuoco in cui è morto anche il padre, che nel frattempo si era islamizzato e alleato ai suoi rapitori.
David da pochi mesi ha iniziato a disegnare la sua odissea come se fosse un fumetto. Sono ritratti i serpenti che incontra nella giungla, disegna in rosso il sangue delle mani tagliate ai bambini accusati di rubare cibo dai jihadisti e persino la scena finale della morte del padre con lui accanto che gli prende l’arma (a sette anni!) e si mette a sparare a sua volta contro i soldati sino a che non è ferito ai piedi da un paio di proiettili. Disegnare per lui è come una terapia liberatoria. Apre il foglio bianco sul tavolo, prende le matite e sorride. Non così Shakira, un’undicenne musulmana ugandese trovata assieme a 54 minori (tra cui 24 bambine) abbandonati e quasi morti di fame dopo uno scontro a fuoco con le Adf/Nalu. Le sue parole sono continuamente interrotte dai singhiozzi. Sussurra e piange Shakira: ha perso mamma, papà, fratelli, non sa dove sia la sua casa, non ricorda il nome del suo villaggio ed è rimasta sola.