ERBIL (Kurdistan iracheno) - Sono le dieci di mercoledì 27 settembre quando le compagnie aeree internazionali cancellano tutti I voli da e per il Kurdistan Iracheno. Il Parlamento di Bagdad ha chiesto al suo Presidente di bloccare le frontiere tra l’Iraq e la Regione autonoma a partire dalle 6 del pomeriggio di venerdì 29 settembre. Via terra e via cielo. Passa poco più di un giorno e il sito ufficiale dell’aeroporto di Erbil (uno dei due aeroporti internazionali del Kurdistan), scrive: “La no flight zone durerà sino al prossimo 29 dicembre”. Tre mesi, dunque. Con meno di 100 caratteri, meno di un tweet, il Kurdistan diventa un’isola. Un’isola inaccessibile nel cuore del Middle East.
Il primo effetto del Referendum. È il primo effetto concreto del referendum per l’indipendenza della Regione Curda voluto da Mas’?d Barzani, Governatore e Presidente del PDK (Partito Democratico del Kurdistan) che si è svolto il 25 settembre e ha confermato il plebiscito previsto: 93% di “sì”. Il popolo vuole abbandonare Bagdad. Salvo rare eccezioni, la comunità internazionale pungola Barzani, spingendolo a più lievi mediazioni. Quelle di Bagdad, ovvio, le rimostranze più dure. La testa dell’Iraq, dalle parole passa ai fatti. Una risoluzione parlamentare stabilisce ripercussioni immediate tra le quali la chiusura dei “confini” tra la Regione autonoma del Kurdistan e il resto della Nazione. Lo stesso fanno Turchia e Iran. L’ultima frontiera di accesso all’area, quella siriana, già da tempo non rappresenta una potenziale via di traffico a causa della guerra civile che da quasi sette anni affligge Damasco. Ma Bagdad va oltre, lanciando un ultimatum specifico. O i due aeroporti internazionali che collegano il Kurdistan al resto del mondo (Erbil e Sulemania) verranno lasciati sotto il totale controllo dell’esercito regolare iracheno, o l’esercito regolare iracheno se li prenderà con ogni mezzo.
Qaraqosh, quell'asilo da ricostruire. Ultimo atto, la data del 29 dicembre che compare sul sito dell’aeroporto. Da qui, i tanti “cancelled” sui tabelloni degli scali del Medio Oriente e del mondo intero. Non si arriva, non si parte. Qualcuno dice che è l’inizio di una nuova guerra. Qualcuno dice che si tratta solo di una passerella per sfoggiare i muscoli e sedersi in posizione di forza al tavolo delle trattative. Quale delle due sia vera, lo si scoprirà a breve. In questo contesto, AVSI continua il suo lavoro. C’è un asilo da ricostruire a Qaraqosh, l’ombelico della piana di Niniwe, il più antico insediamento cristiano in Medio Oriente che è stato appena liberato dopo oltre due anni di occupazione. Un asilo per 250 bambini. Non è un asilo qualunque. È un asilo che fu distrutto. I bambini e le loro famiglie fuggirono ad Erbil. E ad Erbil, AVSI diede loro un asilo provvisorio. Lontano da casa, certo. Ma una parvenza di vita normale. Qaraqosh è stata prima conquistata e poi rasa al suolo dall’ISIS. Il Vessillo nero non ha risparmiato nulla. Case, negozi, chiese, scuole. Siamo a pochi chilometri a sud di Mosul. E la guerra sembra finita, ma non lo è. Le strade per arrivare in città sono costellate di bandierine rosse. Segnalano le mine anticarro. Oltre i fossi, nel primo fare dei campi, altre bandierine. Mine antiuomo. E nei villaggi intorno, ancora donne e uomini che si fanno esplodere in nome di Dio.
Decidere di "farsi chiudere dentro". L’asilo aprirà le porte, comunque e nonostante tutto, la seconda settimana di ottobre. Anche se i confini sono chiusi, anche con le mine ancora lì, anche con la violenza di un giubbotto pieno di esplosivo. Perché se la guerra ferma la vita, allora vince la guerra. AVSI gestisce altri due progetti simili, in Kurdistan. La filosofia è identica. Se quando le frontiere chiudono, se quando i colpi di coda di un conflitto ancora sferzano noi ci si rintana nei fossi, allora vincono loro: le frontiere chiuse, i conflitti, i fossi. Due ragazzi italiani di AVSI e diversi impiegati iracheni hanno scelto di restare in Kurdistan. Di “farsi chiudere dentro”. Perché c’è tanto da fare. Perché altrimenti vince la guerra. Perché non si aiuta la gente “a casa loro”, ma con quella gente si vive. Anche quando la vita fa le bizze. Anche quando si potrebbe scappare. Ma si decide che no. Che è meglio restare.
Esiste un’unica, sola guerra giusta. La guerra alla guerra. Ecco. Oggi, in Kurdistan come altrove, serve far guerra alla guerra. AVSI è in armi. Anche inquel Kurdistan “chiuso” per mesi. Si farà la guerra. Alla guerra. E si vincerà. Perché il futuro non è un concetto astratto. E’ un asilo. Un posto facile, semplice. Una culla. La culla di domani.