KENYA/ Elezioni, profughi e lavoro, il mix che mette il paese in ginocchio

Data 16.10.2017

Le elezioni nazionali dell'8 agosto avevano assegnato la vittoria all'attuale presidente Uhuru Kenyatta con il 54 per cento dei voti, con la conseguente sconfitta del candidato all'opposizione, il 72enne Raila Odinga, fermo al 45 per cento. Dopo l'annuncio dell'esito, Odinga non ha ritenuto legittima la vittoria di Kenyatta, sono seguite proteste e scontri violenti; la comunità internazionale (African Union, Ue, Usa) aveva invece riconosciuto la regolarità del processo elettorale ed invitato Odinga a ricorrere alle procedure legali per far valere le proprie ragioni.

Così è stato: per la prima volta per il Kenya e l'Africa, la Corte Suprema ha accolto alcune obiezioni e annullato le elezioni presidenziali (mentre quelle dei membri del parlamento, dei Governatori delle 44 contee e dei consiglieri di contea, rimanevano valide e confermavano un'ampia vittoria alla coalizione del presidente Kenyatta). Ma il 10 ottobre Odinga ha comunicato che non si presenterà alle nuove elezioni previste per il 26 ottobre, in quanto non sono state accolte le sue richieste di modificare procedure e membri della Commissione elettorale. Ci sono manifestazioni in corso e nessuno sa ancora cosa succederà.

Tutto questo accade nel paese leader dell'Africa Orientale a livello economico (crescita del Pil di oltre il 5 per cento dal 2007), commerciale (dal porto di Mombasa passano le merci che raggiungono Uganda, Rwanda, Burundi, Congo, Sud Sudan) e geopolitico (3.600 militari del Kenya si trovano in Somalia, stato definito "fallito", in guerra civile dal 1992). In un contesto di grave crisi istituzionale nell'area — si pensi alla Somalia, al Sud-Sudan, al Burundi — il Kenya "deve" rimanere stabile. Tale stabilità non è solo auspicata dalla comunità internazionale, ma fortemente richiesta dalla popolazione. Questa lunga campagna elettorale, iniziata un anno fa ed estesa in questi mesi, ha di fatto bloccato nuovi investimenti produttivi, che erano in forte crescita a Nairobi e a Mombasa, e ridotto il turismo sulle incantevoli spiagge della costa e nei parchi naturali tra i più belli d'Africa. Nello slum di Kibera, uno dei più grandi del continente, dove storicamente si concentrano gli scontri, molta gente è scappata, gli studenti non vanno a scuola; le manifestazioni riducono gli introiti degli autisti di matatu (i bus locali) e le opportunità di lavoro per i tanti lavoratori giornalieri.

Questa situazione impedisce di dare un'opportunità a un milione di giovani che ogni anno aspira ad entrare nel mercato del lavoro, in un contesto dove l'economia formale (cioè con lavoratori con un regolare contratto di lavoro e prestazioni sociali) dà lavoro solo a 3 milioni di persone, su una popolazione di 48 milioni (di cui la metà minorenni) e che raddoppierà nel 2050. Inoltre l'instabilità non facilita la ricerca di una soluzione sostenibile al problema del mezzo milione di profughi sud-sudanesi e somali presenti nel paese, di cui 240mila solo nel campo di Dadaab (aperto nel 1992 a seguito della crisi somala). Non aiuta nemmeno ad affrontare la minaccia terroristica e dei nuovi attacchi di Al-Shabaab, avvenuti in questi giorni, il gruppo terrorista tristemente famoso per l'attacco all'Università di Garissa nel 2015.

In questo contesto la maggioranza della popolazione vorrebbe lasciarsi alle spalle le elezioni e tornare a lavorare. Come Jane che, dopo un corso di "alfabetizzazione" finanziaria promosso da Avsi, ha deciso di mettersi insieme ad altre 78 donne per avviare una cooperativa di allevatori di vacche, per la raccolta e la trasformazione del latte, e così costruire il presente e il futuro per sé e la propria famiglia.