Kampala e la rivoluzione dei giovani agricoltori

Data 07.04.2019

di Francesca Milano - Il Sole 24 Ore

Mentre andiamo da Diana sbagliamo strada, ma non ce ne accorgiamo subito: la terra rossa che da qualche chilometro ha preso il posto dell'asfalto confonde tutto, e le nuove case in costruzione disorientano il driver. «Due mesi fa questa villetta non c'era», dice giustificandosi. L'Uganda va veloce, al contrario della nostra jeep che sobbalza lungo lo sterrato e avanza lentamente nella periferia di Kampala, dove le baracche di fango e lamiere si diradano e compaiono le prime costruzioni in mattoni. Anche quella di Diana Nsubuga è così: una casetta bianca e rossa circondata da un piccolo cortile trasformato in un orto urbano. Dentro vecchi copertoni, tubature colorate e mensole di legno Diana coltiva fragole, spinaci, insalata, pomodori, cipolle. Persino il tetto è ricoperto da piantine. Qui nel fine settimana arrivano decine di giovani per imparare come si fa un orto e - soprattutto - come trasformare una piccola produzione domestica di frutta e verdura in un business.

Quello della "farm" di Diana è solo uno dei tanti progetti attivi in Uganda per costruire un'economia per le nuove generazioni. Bisogna fare in fretta, però: il 78% della popolazione oggi ha meno di 30 anni, e di questi la metà è sotto i 15 anni. Un esercito di ragazzi che rischia di far crescere il tasso di disoccupazione e di emigrazione, a meno che non si trovi il modo di "aiutarli a casa loro", come ama dire qualcuno dalle nostre parti.

Molti dei progetti rientrano nel programma Sky (SKilling Youth), finanziato dall'ambasciata olandese in Uganda e portato avanti da AVSI Foundation: l'obiettivo è formare 8mila giovani e insegnare loro come trasformare un'economia di sussistenza in un'attività imprenditoriale del settore agricolo. Anche la Gudie Leisure Farm di Kampala è una buona palestra per i futuri agricoltori ugandesi. In questa fattoria arrivano giovani da tutto il Paese per imparare come allevare polli e maiali, come produrre biogas dai loro escrementi, come riutilizzare tutti i materiali di scarto per creare concime, come coltivare verdure e come replicare il modello di questa piccola oasi nelle altre regioni, dove molti di questi giovani possiedono un piccolo pezzo di terra (o dove comprarlo costa meno).

Nel 1907 Winston Churchill la definì "la perla d'Africa", ma si sbagliava. L'Uganda assomiglia di più a un rubino, per la sua terra rossa, o a uno smeraldo, per la sua vegetazione rigogliosa. Di bianco c'è molto poco, a eccezione del colore della pelle degli operatori delle tantissime Ong che qui lavorano da anni, e che dell'Uganda stanno facendo un laboratorio per sperimentare nuove forme di cooperazione allo sviluppo, aiutati anche dall'attuale situazione pacifica del Paese.

Non è stato sempre così, però: nel 1986 era scoppiata una feroce guerra civile nel nord dell'Uganda, dove Joseph Kony, fondatore del Lord's Resistance Army (l'esercito di Resistenza del Signore), aveva a lungo cercato di sovvertire il governo dell'allora neopresidente Yoweri Museveni (che, per la cronaca, è ancora oggi presidente). L'esercito di Kony è stato definito uno dei gruppi di miliziani più sanguinari del nostro tempo: a farne le spese sono state soprattutto le donne – rese schiave e infettate con il virus dell'Hiv - e i bambini, obbligati a imbracciare le armi. Secondo l'Unicef l'esercito di Resistenza del Signore ha rapito in 20 anni oltre 20mila bambini costringendoli a diventare bambini-soldato o trasformandoli in schiavi sessuali, e oltre 2,5 milioni di persone sono state costrette ad abbandonare le proprie case. Per quanto tenere un conteggio esatto delle vittime sia praticamente impossibile, c'è un numero che rimbalza di bocca in bocca: 100 mila morti.

Chi è sopravvissuto, è scappato a Kampala. Qui sono arrivate anche moltissime donne sole, vedove, ex schiave, separate dai figli, malate di Aids.

Presupposti che avevano cancellato dalla loro vita la forza di andare avanti, tanto che rifiutavano di curarsi e rivendevano gli immunosoppressori che venivano distribuiti.

Manolita Salandini, AVSI Uganda

È stata Rose Busingye, un'infermiera ugandese, a restituire loro la gioia di vivere. "Rose set me free", cantano oggi le donne in coro ballando davanti a una delle sedi dell'International Meeting Point, la Ong che opera in quattro slum di Kampala, non lontano dalla cava di pietre in cui molte di loro lavorano, guadagnando 5 centesimi di euro per ogni tanica riempita di sassi.

Quando non spaccano pietre, si ritrovano al meeting point per cantare, ballare e costruire con carta e colla delle collane che vengono poi vendute in Europa. Il ricavato servirebbe ad aiutarle economicamente, eppure sono loro che aiutano gli altri. Nel 2009, subito dopo il terremoto dell'Aquila, avevano chiesto di prenotare quattro pullman per andare in Italia e unirsi ai soccorritori: «Come spacchiamo le pietre noi, non le spacca nessuno», dicevano.

«Non sapevano nemmeno dove fosse l'Italia - racconta Salandini -, spiegammo loro che non era possibile andare in Abruzzo, allora si misero a lavorare alle collane. Riuscirono a guadagnare 1.500 euro e li spedirono a L'Aquila». Con il loro lavoro - e il sostegno a distanza, che copre il 75% dei costi – le donne del meeting point hanno anche aperto due scuole per dare un'istruzione e un futuro lavorativo ai loro figli, ma anche a quelli rimasti orfani e a tutti gli altri ragazzi della zona, e si tratta di una zona molto ampia.

C'è chi percorre a piedi due ore di strada al mattino e due alla sera per venire a studiare da noi, la Luigi Giussani High School, che oggi ospita 511 alunni. Qui ricevono istruzione, cibo, accoglienza. Qualcosa di impensabile in un Paese dove l'insegnamento è basato sulla violenza. Abbiamo dovuto faticare molto per convincere gli insegnanti a cambiare metodo.

Matteo Severgnini, direttore della Luigi Giussani High School

Con questi tassi di popolazione giovanile, l'istruzione in Uganda è diventata un business: le scuole ricevono finanziamenti in base ai risultati dei loro studenti, che vengono quindi obbligati ad apprendere in maniera mnemonica le nozioni a suon di botte. Chi ha conosciuto questo metodo ed è poi arrivata alla Luigi Giussani High School racconta: «Io sono nata due volte. La prima 16 anni fa. La seconda avevo 14 anni ed era un mercoledì».