Iraq. Ritorno a Qaraqosh

Data 12.12.2017

di Liliana Faccioli Pintozzi, corrispondente da Londra di Sky Tg24

Foto di Stefano Melgrati

La croce si vede da lontano. Sulla strada che da Erbil, capitale dell’orgoglio curdo, porta a Mosul, lì dove Abu Bakr Al Baghdadi annunciò la fondazione del sedicente Stato islamico nel luglio del 2014, quella croce è il primo segnale che oggi, tre anni dopo, le cose sono cambiate. Croce di legno, povera e orgogliosa. Campeggia anche all’ingresso di Qaraqosh. Città a 33 chilometri da Mosul, cuore del cristianesimo in una delle prime terre cristiane della storia. Un cuore che per trentaquattro mesi ha cessato di battere durante l’occupazione del Califfato nero. Per la popolazione l’alternativa era stata netta: convertirsi all’islam, o essere uccisi. È così che una città da 66mila abitanti si è svuotata nel giro di pochi giorni; è così che a controllarla sono stati sufficienti duecento, trecento uomini. La paura è la più potente delle armi.

«Non li abbiamo mai visti. Ma sapevamo che erano arrivati. Sapevamo quello che facevano alla popolazione. Erano ovunque, erano l’incubo. Per questo siamo scappati». Saddiq Yassur ci racconta gli ultimi istanti nella “sua” Qaraqosh seduto sull’uscio della casa che, per tutto questo tempo, gli ha dato rifugio, e che per lui non è mai stata “casa”. Una casa diroccata nel sobborgo di Ankawa, alle porte di Erbil, capoluogo del Kurdistan iracheno. Ce lo racconta mentre aspetta il pick-up che dovrà riempire entro il giorno dopo. Finalmente, si torna a Casa.

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Quel che rimane.

Qaraqosh. L’odore misto di sabbia e bruciato, decomposizione e vernice, benzina e carne. Il rumore dei primi lavori, le luci dei primi negozi, tra i cumuli di mattoni e cemento, i palazzi che sono lo scheletro di se stessi, le strade dissestate, la mancanza di acqua ed elettricità.

È tornato qui Saddiq, in quella casa a due piani che aveva disegnato, prima ancora che costruito, con le sue mani, e che mostra orgoglioso. Le camere da letto. Il bagno con i mosaici azzurri. Il salone, ampio: «Hanno portato via tutto». Lo racconta con voce triste, ma il sorriso racconta la sua gioia, gli occhi assicurano la volontà: non importa, si ricostruirà.

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Tutto, ma non davvero tutto. Non il ritratto della Madonna con il Bambinello che campeggia sulla parete principale della stanza sfregiato. Cancellato il volto di Maria, cancellato il volto di Gesù e degli angeli. Ritratto disegnato a secco direttamente sulla parete, e per violentarlo hanno dovuto rompere il muro; rimarrà così per sempre. «Lo voglio tenere così per non dimenticare quello che è successo. Sopra metterò un altro dipinto, ma questo rimarrà nelle ossa della mia casa. Voglio ricordare, dobbiamo ricordare». Ricordare. Che non vuol dire non perdonare

Il perdono di Myriam.

Tre anni dopo, Myriam non ha perso la fede che aveva conquistato il mondo quando per la prima volta, dopo la fuga da Qaraqosh nel 2014, davanti alla telecamera di una televisione irachena raccontava con serenità la vita di sfollata. «Perdonali, perché non sanno quello che fanno», mi risponde quando le chiedo se ancora pensa che il perdono, quel gesto tanto estremo, tanto vittorioso, sia possibile. «Loro non lo sanno, quello che hanno fatto. Non dico che siano stupidi, ma quello che stanno facendo in effetti è stupido».

Incontro Myriam quando ha ormai 13 anni. «È stato un anno meraviglioso», mi dice, lei che dall’agosto del 2014 vive in un campo profughi: «La scuola mi piace tanto, ho una nuova amica che si chiama Carmen, e anche se non c’è molto spazio e non posso giocare per strada, posso sempre giocare con mia sorella. Sono molto felice, perché Dio ci protegge». La fede che i suoi genitori le hanno trasmesso e che lei coltiva è tangibile: «Dio ci aiuterà. Lui ha messo le sue mani su di noi, e ci ha portati ad Ankawa. E poi ha messo le sue mani su Ankawa, così il Daesh non è mai arrivato qui. E avrebbe potuto, e fare qui quello che ha fatto a Qaraqosh».

L’istruzione è la chiave. Istruzione scolastica, educazione alla convivenza. Serve la comunità, servono le scuole. Di ogni ordine e grado, forse soprattutto per i più piccoli: perché se lo studio della matematica si può recuperare, «amare» e «rispettare» sono esercizi da apprendere in tenera età, e praticare quotidianamente.

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Nuove generazioni.

«Dopo la fuga da Qaraqosh tante famiglie sono state costrette a vivere in spazi molto ridotti, ambienti per cinque persone abitati da quindici tra adulti e bambini. Tante persone, pochissimo spazio, tanti bimbi messi insieme; loro che vogliono giocare, mentre i genitori hanno molti problemi a cui pensare. Così hanno iniziato a diventare aggressivi. Quando sono arrivati da noi litigavano tra loro per ogni motivo, e c’era molta tensione». Ghsoom descrive così l’arrivo dei piccoli studenti, profughi a quattro e cinque anni, all’asilo di Ozal City, la zona di Ankawa che ha accolto le famiglie cristiane. Nibras, anche lei maestra, mi racconta la storia di Miron: «Aveva difficoltà ad entrare in contatto addirittura con i suoi familiari. Non parlava con nessuno. Stava sempre da solo, non si lasciava avvicinare. All’inizio non partecipava a nessun gioco. Poi, piano piano, abbiamo conquistato la sua fiducia. Con le carezze, con le parole. E al saggio di fine anno anche lui ha cantato e ballato con gli altri bambini». Ghsoom e Nibras sono solo due delle tante maestre che hanno lavorato nella Casa del Bambino Gesù. Tutte sfollate. Tutte decise a non farsi schiacciare dalla storia scritta dalle armi e dal petrolio; decise a difendere i più piccoli, i più deboli, speranza di un futuro diverso.

La piccola struttura dell’asilo, negli anni in cui Qaraqosh è stata occupata dallo Stato islamico, ha accolto circa 130 bambini, provenienti dalle famiglie sfollate a Erbil: 1.200 famiglie in tutto, 900 cristiane, e poi musulmane e yazide. Una goccia nel mare dei 250mila sfollati e profughi nella città curda; una goccia che è stata il mare in cui questi bambini hanno potuto nuotare, crescere, recuperare serenità, imparare. «All’inizio volevano comportarsi all’asilo come si comportavano a casa», continua Ghsoom: «D’altra parte le condizioni psicologiche erano pesanti. Noi maestre abbiamo risposto con amore. E abbiamo insegnato loro nuovamente a stare insieme, a convivere».

Poche stanze. Un cortiletto interno con qualche gioco. Un generatore rumoroso e puzzolente, per sopperire la cronica mancanza di elettricità. Una struttura ridotta, che ha saputo fare la differenza. Grazie ai fondi che Avsi ha messo a disposizionee alla gestione delle suore domenicane.

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«Istruire i bambini è come coltivare un albero. Se questo albero crescerà dritto, ci offrirà i suoi frutti». Suor Ibtinage, da un anno direttrice della Casa, è anche molto concreta: «Senza questo asilo i bambini passerebbero la giornata per strada. E lì imparerebbero solo cose sbagliate. Noi siamo contrari alle armi, non ne abbiamo neanche per difenderci. Penne e fogli sono le nostre armi». Perché una battaglia sarà certamente militare; ma la guerra si potrà vincere solo così. Con l’istruzione. Con la cultura. Con il rispetto.

Caffè iracheno.

Anche suor Ibtinage è di Qaraqosh. Anche lei a breve tornerà a casa: 65 anni, suora cattolica in una terra che ai cristiani ha fatto la guerra. «Non ho paura. L’amore per la nostra patria supera ogni paura. E poi devo tornare, la nostra presenza dà sicurezza alla popolazione».

È il senso di comunità che si ricostruisce. Lo riconosci nella determinazione di chi torna dove non c’è nulla se non l’anima. Lo riconosci in gesti antichi, sempre uguali, potenti nella loro banalità di un quotidiano nonostante tutto possibile. Come l’offrire un caffè.

Il caffè che mi ha offerto Saddiq. La sera a Ozal City, sulla soglia della sua non-casa. La barba lunga, il volto tirato, la yalabiyasporca. Il giorno dopo a Qaraqosh, nel “suo” salone. Su panche di legno, certo, perché tutto è stato rubato. Ma nelle stesse tazzine. Sorridendo, la fatica del viaggio cancellata dalla gioia del ritorno.

E poi il caffè che mi ha servito Amir, 38 anni e un gran sorriso. Anche se la sua casa è stata saccheggiata e bruciata. Anche se l’allevamento di polli di proprietà della sua famiglia non esiste più. Anche se il lavoro, per lui che è fabbro, è ancora poco, e sua moglie si deve operare. Ha un gran sorriso, la fiducia di chi ha visto finire il peggio, la voglia di ricominciare. Partendo dai suoi cinque bambini.

Shahad ha cinque anni e andava anche lei all’asilo di Ozal City. «Le piaceva molto, ma prima che a lei piaceva a me», racconta Amir: «Ho visto in lei un grande cambiamento, ha imparato a scrivere e a cantare gli inni, le hanno insegnato tantissime cose». Amir è giovane, e non si fa illusioni. Sa che la strada della ricostruzione sarà lunga e difficile. Chiede a tutti di rientrare, «noi cristiani siamo tutti fratelli, io non posso vivere da solo in un’intera città».

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«Quando aprirete?».

Mentre parla, sulle sue gambe si arrampica l’ultima arrivata in famiglia. Elis, 3 anni. «Sarebbe un onore se fosse la prima iscritta del nuovo asilo», mi dice la mamma sorridendo. Per lei, e per tutte le bambine e i bambini come lei, è importante che l’asilo di Ozal City, prossimo alla chiusura visto che tutte le famiglie stanno rientrando, apra a Qaraqosh.

«È bello quello che Avsi sta facendo, cercando di riaprire questo asilo. I bambini sono il nostro futuro, se nessuno insegna loro nulla perderanno ogni possibilità, ogni speranza», la saggezza adulta di Myriam, bambina diventata adolescente in questi anni di guerra.

La struttura già c’è, è il vecchio asilo delle suore domenicane. Struttura capiente, per almeno 400 bambini. Danneggiata, ma in modo non gravissimo. Al piano terra due aule sembrano attendere solo luce, acqua, sapone e una mano di vernice.

Convivenza. Ancora oggi, per le strade di Qaraqosh, si respira la paura. Non tanto dello Stato islamico, ma di chi verrà dopo di lui. Il patto di solidarietà tra cristiani della Valle di Ninive e sunniti, dopo anni di convivenza politica con reciproca soddisfazione, ormai è rotto. «È impossibile tornare a fidarsi», ripetono all’unisono grandi e piccoli, preti e fabbri, intellettuali e allevatori. Impossibile tornare a fidarsi dei vicini, perché l’Isis - imposto, certo, con le armi - ha trovato comunque un certo sostegno fra la popolazione sunnita. In chiave anti-Baghdad; o religiosa; o opportunistica. Non importa: il sostegno c’è stato, ricostruire non sarà semplice.

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Ricostruire.

Don George Jahola è di fatto il sindaco di Qaraqosh. Nato in queste strade, era di base in Italia quando ha scelto di tornare in città subito dopo la liberazione, nel novembre 2016, e da allora ha passato ogni ora “mappando” distruzione e necessità. Ogni singola casa è stata classificata, tra danni subiti e soldi necessari per ricostruirla. «Servono circa sei milioni di dollari», e si tratta solo delle abitazioni civili. Le infrastrutture, le strade, i servizi, restano da inventare. «La città è molto grande, da dove iniziare? È importante far partire subito programmi già provati in altri momenti di guerra, perché i giovani sono come un impasto: ne puoi fare quello che vuoi. La nuova generazione che ha vissuto, o è nata, durante la guerra, ha in memoria quello che sente dai genitori, o in famiglia. Se ne parla tutti i giorni, è la quotidianità, e ci vorrà del tempo per riprendersi, per sentirsi nuovamente al sicuro, anche per perdere le cattive abitudini apprese in questi anni, come un desiderio continuo di accumulare anche quello di cui non si ha bisogno. Per questo io insisto tanto: non distribuite viveri, ma concentratevi su altri programmi, concentratevi sull’istruzione».

È con queste parole nelle orecchie che lascio Qaraqosh. Lungo la strada che mi riporta a Erbil, costeggiata dai paletti rossi che segnalano la presenza di mine antiuomo e interrotta dai checkpoint, a ogni incrocio la macchina viene circondata da bambini. Di pochi anni, sei o sette, vendono gomme da masticare e acqua, di fatto chiedono l’elemosina. Nessuno si occupa di loro. Il loro futuro non è prioritario. Se sono cristiani rischiano di sparire nell’indifferenza. Se sono musulmani, chi eviterà che diventino la manovalanza del prossimo Stato islamico?

È questo il fronte decisivo della guerra contro il Daesh. Liberare militarmente Qaraqosh e Mosul è stato vincere una battaglia, ma la vittoria è ancora lontana. Il nemico dovrà magari cambiare nome e bandiera, ma fino a quando non si sconfiggeranno abbandono, corruzione, sfruttamento e ignoranza saprà sempre dove andare a cercare carne da macello da arruolare.

LE TENDE DI AVSI

“La casa dov’è?” è il titolo della Campagna Tende 2017. Avsi propone quattro progetti, a cui sarà dato sostegno con iniziative in tutta Italia.

Siria. Due ospedali a Damasco e uno ad Aleppo.

Iraq. L’asilo di cui si parla in queste pagine, per i bambini di famiglie sfollate che ritornano a Qaraqosh.

Uganda. Corsi di formazione professionale nel campo profughi di Lamwo e corsi per insegnanti e borse di studio per ragazzi dello slum di Kireka a Kampala.

Italia. Le attività di Portofranco, che aiuta studenti italiani e stranieri, nello studio e nell’orientamento scolastico.