Iraq: Nuove radici per ricostruire una comunità ferita

Data 26.04.2018

In apertura, foto di Stefano Melgrati

di Lucia Goracci corrispondente Rai da Istanbul

La nun di Nazareno. Quante volte l’ho sentito fare quel racconto. “Quando l’ISIS è arrivato nel nostro villaggio, vi si è abbattuto come una tempesta, marchiando con la nun tutte le case dei cristiani”. Un marchio che – la storia dell’umanità racconta – non è solo una maledizione, è soprattutto il segno che identifica un potenziale obiettivo: cristiano, dunque vittima sacrificale.

Li avevamo riferiti quei racconti con un sentimento di meccanico orrore. Poi un giorno li ho visti, quei segni, la lettera n nella lingua degli arabi. A Mosul est, poco distante dal fianco sinistro del fiume Tigri, sui portoni dei quartieri dove un tempo avevano vissuto i residenti cristiani della città con più cristiani d’Iraq. Ed è stato un tuffo al cuore, com essere lì nel momento esatto in cui le squadracce degli impresari dell’odio islamista avevano dipinto di infamia case, vite e persone. Mosul est era stata riconquistata all’ISIS mesi addietro, quei quartieri erano automaticamente diventati linea del fronte.
E ricordo quando arrivai la prima volta a Bartella. Ci entrai con le insegne sciite del vincitore di turno. Ricordo un crocifisso esibito da un braccio armato fuori dal finestrino di uno strombazzante blindato. Le campane fatte suonare per essere udite dai giornalisti venuti da lontano, dal cattolico occidente.

Ricordo le chiese, numerose, tra Bartella e Qaraqosh. La chiesa madre: nel suo cortile interno i libri dei cristiani impilati, un attimo prima che gli venisse dato fuoco. Non tutte le pagine erano bruciate, ma tutto era stato reso illeggibile. Testimonianza impossibile da esser tramandata ancora. Ricordo, in quel cortile busti di donna, manichini crivellati di proiettili. Il cortile della principale chiesa di Qaraqosh era diventato un
poligono di tiro del califfato. Ricordo croci divelte e croci piegate. E lapidi scoperchiate e saccheggiate. E tunnel – i tunnel lunghi anche chilometri e larghi da potervisi muovere durante la battaglia – aperti sotto i pavimenti dei luoghi di culto dei cristiani. E tanta sporcizia: i resti del bivacco dei tagliagole in fuga e gli strati, che vi si erano sovrapposti, delle truppe che lo avevano sconfitto.

Alla sfida della sopravvivenza, tra i cristiani della piana di Ninive, oggi segue un’impresa ancora più enorme: la ricostruzione. Che è innanzitutto ricostruzione di comunità, tessuto sociale. Relazioni secolari che devono sopravvivere alla paura del ritorno e rimettere radici. Chi avrà il coraggio di farlo? Chi, dopo una fuga precipitosa, inseguiti da un male superiore a tutto il male che i cristiani d’Iraq avevano già sperimentato in quest’ultimo decennio? Chi, dopo esser stati abbandonati da un esercito, uno stato, per esser consegnati, vulnerabili, allo stato islamico?

Chi avrà il coraggio di riportare i propri figli, salvati per miracolo, sottratti alla barbarie? Nei prossimi mesi, negli anni, i cristiani d’Iraq risponderanno a questi storici interrogativi. Se non saranno lasciati, ancora una volta, soli.

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