Il terrorismo si combatte con più educazione e lavoro

Data 08.07.2017

Caro direttore, rischia di inclinarsi il tavolo dei G20 ad Amburgo sotto il peso dei punti all’ordine del giorno: l’implementazione dello sviluppo sostenibile secondo l’Agenda 2030, le relazioni geopolitiche… Tra tutti quello più denso resta il tema migranti-rifugiati tra aiuto allo sviluppo e lotta al terrorismo: attorno a questo si avvitano dichiarazioni disorientanti (Bill Gates invita a chiudere i confini, lui, il filantropo per eccellenza) e azioni simboliche (i corridoi umanitari, soluzione per alcuni profughi «privilegiati» mentre tutti gli altri restano nel fango) che polarizzano il dibattito e divorano lo spazio per un lavoro comune. Quello che serve per cominciare a guardare alla realtà dei Paesi di Africa, Medio Oriente, Asia dai quali arrivano gli ospiti inattesi è tenere i dati reali alla mano e guardare oltre l’ostacolo. La realtà sembra imporre un nuovo criterio di lettura: smetterla di ragionare in termini di contrapposizione noiloro, sepolta dalla storia e dall’interconnessione globale, che spinge ad atteggiamenti neocolonialistici — «noi possiamo calare dall’alto in basso a loro il nostro aiuto» — che i leader e i popoli africani non accettano più e che mostrano la loro inadeguatezza al contatto con la cronaca. Al noi-loro va sostituita la partnership: noi con loro, loro con noi. Non è romanticismo affermare che i nostri destini sono ormai intrecciati. Ma questa categoria deve condurre ad azioni concrete. Lo sviluppo in Africa non accade secondo gli schemi occidentali, procede per scatti e quindi spiazza se non si affronta insieme.

Alla paura che questi migranti nascondano in seno dei terroristi non si risponde spostando i confini europei in Africa, quindi destinando i fondi della lotta contro la povertà (Trust Fund Africa) ad aumentare le forze di polizia delle frontiera africane. La spinta della crescita demografica, della fame, dei disastri climatici, delle guerre, non si ferma certo davanti a qualche check-point, ha una tale pressione che trova sempre nuovi varchi.

Mentre si annuncia come interessante l’External Investment Plan dell’Ue, che ha deciso di stanziare 750 milioni di garanzie cash per mobilitare investimenti in Africa per 60 miliardi di euro delle imprese per i prossimi 6-7 anni. Qualcuno lo chiama il Piano Marshall per l’Africa, in realtà — stando sempre alla nuova categoria «noi con loro» — è un piano che potrebbe sostenere l’Africa e l’Europa insieme. A condizione che sia coinvolta anche la società civile africana e europea.

Soprattutto se in questo piano si innesterà un’ulteriore attenzione: la promozione di educazione di qualità combinata alla creazione di posti di lavoro. L’educazione senza uno sbocco di lavoro infatti genera frustrazione (deprivazione relativa). E il lavoro senza educazione rischia di avere il fiato corto. Un’educazione di qualità, come la vuole l’Onu, deve fare i conti con i contenuti non solo con i contenitori. Non basta insegnare a leggere e scrivere. Vale per il Burundi o il Libano come per l’Italia.

Un progetto come IFish Farm, che spinge una startup italiana a investire nell’allevamento della tilapia in Uganda, ha rivitalizzato villaggi interi, prevenendo l’emigrazione e favorendo il business locale e italiano. Panino Giusto, che in Italia ha inserito nella sua Accademia quindici rifugiati, ha insegnato loro un lavoro e poi ne ha avviato l’inserimento effettivo al lavoro, indica una modalità creativa di favorire business e integrazione, di quella che ci serve subito. I progetti ora avviati dall’Agenzia italiana della Cooperazione in Libano e Giordania per educare e formare al lavoro i giovani più vulnerabili, insieme a «Back to the future» che porta a scuola 40 mila bambini siriani grazie al trust fund europeo Madad, si propongono ai G20 come buone pratiche da cui estrarre delle policies.

A tre condizioni: sfondare l’orizzonte, liberarsi da zavorre ideologiche, coinvolgere tutti, società civile, istituzioni, imprese. Chi da quarantacinque anni sta tra i presunti disperati, crede ancora che sia possibile non lasciare inclinare quel tavolo.

Segretario generale di AVSI