Haiti. I bambini fanno «sciopero»: la difficile azione delle Ong nell’isola

Data 01.10.2018

A costruire le barricate l’hanno imparato dai “grandi” gli altri abitanti del quartiere di Martissant in fermento. Nella sterminata periferia a sud di Port-au-Prince, le marce sono quotidiane. Con le loro mani piccole, i 325 baby-ospiti del principale centro di accoglienza di Haiti – l’istituto di Carrefour – hanno messo insieme i copertoni. E hanno dato loro fuoco. Una sorta di «sciopero». In questo modo hanno voluto manifestare la rabbia di essere stati «abbandonati » dal personale, a sua volta in sciopero per l’insicurezza della zona e un arretrato di due anni degli stipendi. Dei quasi duecento dipendenti, ne sono rimasti in servizio a malapena otto. Impossibile badare ai minori – molti dei quali neonati – che si aggirano spaesati per l’edificio e i dintorni. La «protesta dei bambini», della settimana scorsa, è la metafora dell’attuale e invisibile dramma haitiano. Che si accanisce con particolare forza proprio sui piccoli.

L’epicentro è appunto Martissant. «Ogni sera, prima di andare a letto, mi chiedeva: “Papà, perché ci sono tanti spari?”, dice Michel – il nome è di fantasia come quello dei figli –, impiegato di 34 anni. La mattina, appena sveglio, Evans, 6 anni, si precipitava fuori, insieme la sorellina Claudette di 5, a «fare la spesa». Così chiamavano la macabra gara a raccogliere più bossoli. «Vedevo i miei figli giocare con le cartucce, fra adolescenti armati appostati agli angoli della strada, che facevano le sentinelle per le bande. Per Evans e Claudette la violenza stava diventando normale.

Non volevo che si “abituassero” all’orrore. Per questo me ne sono andato». Non ci sono registri ufficiali della popolazione residente nell’enclave. Stime informali parlano, però, di almeno 250mila persone ammassate in baracche di fortuna su strade sterrate cosparse di rifiuti: sono lontani i tempi in cui John Kennedy trascorreva le vacanze in uno dei molti hotel esclusivi del quartiere. Impossibile, dunque, calcolare quanti abbiano abbandonato la zona dall’inizio dell’anno.

Di certo sono molti. «I più fortunati. Il resto non può farlo perché non ha nemmeno le risorse minime per costruirsi un’altra casupola altrove. Molti mandano via da parenti almeno i figli», racconta Michel. E aggiunge: «Solo dei miei 25 colleghi di lavoro, sei si sono trasferiti negli ultimi due mesi. Gli altri vorrebbero farlo. Come tutti».

La ragione è sempre la stessa: la «guerra». Un conflitto assurdo, senza ragioni né vincitori, effetto collaterale della cronica crisi. Quando questa si acuisce, aumenta anche la violenza anarchica nelle aree più emarginate. Il nuovo “scossone” è dovuto a un mix di fattori. Dalla fine delle missione di stabilizzazione dell’Onu – sostituita da una presenza ridotta – allo scandalo Petrocaribe, con la scomparsa di centinaia di milioni di dollari spariti, tra cui i 60 milioni arrivati da Caracas per il post- terremoto. Proprio l’emergenza venezuelana e la conseguente fine delle forniture di petrolio a prezzi agevolati ha causato la cruenta rivolta del 5 luglio, giorno in cui il governo del presidente Jovenal Moise ha decretato l’improvviso aumento del carburante del 40 per cento. Per 72 ore, la capitale è stata messa a ferro a fuoco mentre l’esecutivo ha dovuto ritirare il provvedimento e il premier, Jack Guy Lafontant, si è dimesso.

A “catalizzare” la tensione generale è stata stavolta Martissant: là si concentrano gran parte delle 535 vittime registrate nei primi otto mesi dell’anno dalla Commissione giustizia e pace della Chiesa cattolica. E là, a Palema di Grand Ravine, lo scorso 14 marzo, è scomparso il giornalista Vladimir Legagneur, impegnato in un servizio sul boom di omicidi. Le prin- cipali responsabili sono le gang: gruppi di giovani e giovanissimi formati da disperati senza opportunità. Se ne conta una per ogni settori del quartiere. Nel caos generale, queste intensificano l’attività per ampliare la quota di territorio sotto il proprio controllo e il giro di estorsioni – piccole cifre si tratta di «mafie dei poveri » – a trasporto locale e ambulanti.

Lo scontro con i rivali è diventato feroce. La situazione è peggiorata mese dopo mese, fino al picco attuale. Tanto che le autorità hanno minacciato un’azione «forte». Un intervento simile, però, rischia di aggravare la crisi, senza risolvere le questioni di fondo. Da un mese e mezzo, Martissant è off limits: chi vive nel resto della capitale non vi si reca. Nemmeno se là si trova il posto di lavoro, come ha dimostrato la tragica «protesta dei bambini».

Anche medici e infermieri della clinica Portail- Léogane sono irreperibili e i corridoi dell’ospedale sono deserti. «Non vengono nemmeno i pazienti perché hanno paura di uscire di casa», dice una fonte ben informata. A restare sempre aperto e in funzione è il centro di Avsi che dà accompagnamento, supporto psicosociale e un posto sicuro per crescere a mille piccoli della zona e di Cité Soleil, la maxi-baraccopoli di Port-au-Prince.

«Il nostro staff è composto da persone della zona che hanno una profonda conoscenza del quartiere e delle sue dinamiche. Questo permette loro di continuare il lavoro anche nei momenti di maggior difficoltà. Come quello attuale – racconta Fiammetta Cappellini, responsabile dell’Ong Avsi ad Haiti –. Non è la prima volta che Martissant è nell’occhio del ciclone. Stavolta, però, la crisi è estremamente grave e prolungata. Per questo restiamo al fianco di queste persone: vogliamo dare loro, soprattutto ai più piccoli, almeno una parvenza di normalità».