di Flavia Piccinni e Carmine Gazzanni - The Huffington Post
Racconto di una famiglia siriana conosciuta ad Al-Zarqa, Giordania, dall'inferno alla vita. Qui sono fuggiti dalla guerra in trentamila
È una Pietà contemporanea quella che ci troviamo davanti. Al centro c’è Hanan, il viso incorniciato da un velo azzurro, la tunica a fiori che le fascia la pancia; aspetta una bambina che nascerà alla fine dell’estate. Accanto le stanno gli altri sei figli: tre maschi e tre femmine. Hanno dai due ai dodici anni, lo sguardo curioso di chi attende un varco nella conversazione per prendere la parola.
Il padre è disteso su un materassino in un angolo della grande stanza. Ha una giacca di pelle, i piedi nudi; scalzi sono anche i nostri piedi, come la tradizione araba impone. Le sneakers le abbiamo lasciate sul pianerottolo, accanto a una cazzuola e una cartella.
Non c’è luce, se non un faretto d’emergenza; la grande consolle di legno alle spalle di Hanan è l’unico mobile in casa. “Anche per dormire – ci spiega la donna – ci arrangiamo qui, per terra”.
Alle sue spalle, una grande finestra affaccia sulle strade caotiche di Al-Zarqa, 800mila abitanti di cui – secondo le ultime stime di UNHCR – quasi 30mila siriani. La donna si inginocchia, sorride, accarezza la testa alla figlia che ha accanto. Il marito, che si chiama Hassan e a quarant’anni, comincia a raccontare: “Ci troviamo qui, ma non saprei come. Veniamo da Aleppo e abbiamo deciso di lasciare la Siria perché la guerra era ovunque andassimo. Prima ci siamo spostati all’interno del Paese, poi non c’erano più zone sicure. Alla Turchia e al Libano ho preferito la Giordania perché qui vive un popolo più simile a noi. Hanno le stesse abitudini, la stessa lingua. Mi avevano detto che attraversare il confine era più semplice. E poi io questi posti li avevo già visti: venivo qui a vendere le verdure, e in qualche modo assomigliavano a casa”. Hassan si ferma, guarda per un attimo un punto indistinto alle nostre spalle. “Ma non siamo stati fortunati. Siamo scappati nel deserto e quando siamo arrivati al confine ci hanno bloccato per tre mesi. Per tre lunghissimi mesi la nostra coperta è stata il cielo, il nostro pavimento la sabbia”.
La moglie annuisce mentre fissa per terra; anche il traduttore – un ragazzo di Amman, che ha studiato in Italia per molti anni – guarda per terra. Hassan ricorda che a portargli da mangiare erano i militari giordani, spiega che sono stati mesi duri e che alla fine, inshallah, il tempo ha smesso di essere sospeso, ha iniziato un poco a scorrere.
Ci dice delle difficoltà economiche, che per tre anni non ha parlato con i suoi genitori e fratelli rimasti in Siria: “poi, un giorno, la linea ha cominciato a squillare come se niente fosse accaduto, e poi loro hanno risposto. Erano vivi”.
Ci racconta di aver trovato alla fine quella casa: “l’affitto sono 120 dinari giordani al mese, più altri 50 per l’acqua e 80 per l’elettricità. Paghiamo secondo quanto riesco a lavorare, e grazie agli aiuti che riceviamo. Avevo messo qualcosa da parte prima della guerra, ma adesso sono due mesi che non pago, e faccio debiti”. Aggiunge che la vita è proprio questa cosa qui: quella cosa che perdi per una guerra che neanche sai cosa sia. “Ma – conclude – alla fine siamo vivi, e va bene anche così. Mi arrangio come muratore. Qui vicino c’è una clinica dove possiamo andare gratuitamente a curarci che sta seguendo anche la gravidanza di Hanan e i ragazzi vanno a scuola grazie a Back to the future”.
Il riferimento è al progetto delle ong Terre des Hommes Italia e Olanda, Avsi e War Child Holland finanziato con i soldi del Madad Fund, il Regional Trust Fund europeo creato nel 2014 per rispondere all’emergenza siriana cui l’Unione Europea ha dedicato 12 milioni di euro – dei 1,5 miliardi stanziati nel 2014 con il Madad Fund per fornire assistenza medica, professionale ed educativa – arrivando a coinvolgere quasi 100mila persone fra Libano e Giordania (dove il progetto ha ristrutturato dieci scuole coinvolgendo solo nel 2018 ben 2500 bambini e 44 insegnanti).
I ragazzi annuiscono, il più grande si chiama Mohammad, ha i capelli lisci e nerissimi, gli occhi scuri. Ha da poco compiuto dodici anni: “In Siria – spiega - avevo fatto solo un anno di scuola. Quando siamo arrivati non sapevo né leggere né scrivere bene. Qui ci hanno insegnato con i giochi anche l’inglese, e ci spiegano tutte le volte che vogliamo le cose, se non le capiamo”. Fanno eco le due sorelle, Samira e Nur, rispettivamente di nove e otto anni. “In classe ci divertiamo, e impariamo tante cose” spiega Samira che, arrossendo, confessa: “quando mamma mi disse che sarei potuta andare a scuola, ho pianto per la felicità”. Poi si alza e va a prendere la cartella che sta sul pianerottolo, accanto agli attrezzi del padre. Tira fuori, uno a uno, i libri e intanto ci spiega a quale materia corrispondono. Con orgoglio Nur la interrompe e, sfoggiando il suo quaderno di arabo: “Bello, vero? Me lo hanno insegnato a scuola, come si fa a scrivere, e mi sento tanto fortunato. All’inizio facevo dei disegni brutti, poi ho cominciato a dimenticare”. La madre ci racconta di quei quaderni zeppi di aerei, di corpi, di fiumi rossi. “Rossi come il sangue”, sospira e poi a sorpresa sorride. Si passa la mano sulla pancia:
Io tutte le notti sogno la Siria. E mia figlia la voglio chiamare Aidha che in arabo vuol dire colei che parte ma ritorna. Perché noi vogliamo con tutti noi stessi tornare a casa. Certo, sappiamo che ci aspettano solo macerie, ma la Siria è stato e sarà per sempre il nostro paradiso