di Stefano Lorenzetto - Corriere della Sera
Io, nunzio da campo. Più che l'abito corale scarlatto, dovrei indossare la tuta mimetica. Mi considero un veterano di guerra.
Card. Mario Zenari, nunzio apostolico a Damasco
Il cardinale Mario Zenari, 73 anni, nominato nunzio apostolico a Damasco nel 2008, da un ventennio svolge il servizio diplomatico per conto della Santa Sede solo in Paesi devastati da conflitti: prima in Costa d'Avorio, Niger e Burkina Faso, poi in Sri Lanka, ora in Siria. È l'unico nunzio a indossare la porpora. Veronese, viene da una famiglia di mezzadri abitante a Rosegaferro.
Rosicchiare il ferro, esercizio difficile.
«Il Signore aiuta. Il 5 novembre 2013 un razzo cadde alle 6.34 del mattino sul terrazzo della nunziatura dove di solito a quell'ora vado a pregare. Uno scarto di 5 metri, e non sarei qui a raccontarlo. Il Papa parla sempre di "Chiesa ospedale da campo". Ecco, mi considero un nunzio da campo. Della guerra in Siria ho capito subito che il fuoco si sarebbe esteso all'Europa».
Fin dove arriverà, dopo che la Turchia ha attaccato i curdi nel nord del Paese?
«L'unica risposta sensata l'ha data il secondo inviato speciale dell'Onu, l'algerino Lakhdar Brahimi, quando dopo due anni gettò la spugna: "Ci siamo tutti sbagliati. Sia in Siria sia fuori dalla Siria"».
Le vere cause del conflitto quali sono?
«Guardi, all'inizio si poteva pensare: qui ci sono i buoni, là ci sono i cattivi. Ma oggi la matassa è talmente ingarbugliata da impedire qualsiasi giudizio. Sul terreno e nei cieli siriani si confrontano cinque potenze mondiali che si fanno la guerra per procura. Questo conflitto si può risolvere solo a New York, al Palazzo di Vetro».
Ha avuto molti incontri con il presidente Bashar Assad?
«Solo tre. Dà l'impressione di essere un gentleman. Non si può dire che assomigli a Saddam Hussein o a Gheddafi. Ciò non toglie che la responsabilità di quanto sta accadendo in Siria la porta lui, non la sua domestica».
Il presidente sostiene che si sta difendendo dai terroristi musulmani.
«Un'antifona che ripete da anni, e in parte è vera: l'avvento dello Stato Islamico rappresenta un autentico flagello».
Qual è il bilancio della tragedia?
«È la più grande catastrofe umanitaria dopo la fine della Seconda guerra mondiale. António Guterres, segretario generale dell'Onu, ha parlato di "inferno sulla terra". Su 23 milioni di abitanti, 5,9 sono sfollati interni e 5,6 riparati nei Paesi vicini. Mezzo milione hanno perso la vita sotto le bombe. Lei conosce la parabola del buon samaritano?».
Il viandante che soccorre un uomo lasciato mezzo morto dai briganti sulla strada per Gerico e lo affida a un locandiere, accollandosi le spese.
«La Siria è quel malcapitato. Dei ladroni che l'hanno bastonata sappiamo nomi e cognomi. I buoni samaritani sono chiese, Ong e privati che la soccorrono. Circa 2.000 di loro sono stati uccisi. La locanda non c'è più: il 54 per cento degli ospedali sono sbarrati o parzialmente inagibili, secondo l'Oms, e mancano all'appello i due terzi del personale sanitario».
Il nunzio apostolico che può fare?
«In Siria ci sono tre nosocomi retti da suore, due a Damasco e uno ad Aleppo. Stavano chiudendo i reparti. Allora con la Fondazione AVSI abbiamo lanciato l'operazione Ospedali aperti, che ha già curato gratis 25.000 pazienti. Ai ricoverati non chiediamo quale fede pratichino, basta solo che siano bisognosi, visto che 83 siriani su 100 vivono sotto la soglia di povertà. I musulmani, che prima ci vedevano come infedeli, ora sono i primi a parlare bene della Chiesa».
Teme per la sua vita?
«Non ho simili patemi. Vent'anni fa fui nominato arcivescovo titolare di Zuglio. Nel giugno scorso ho visitato questo paesino ai confini tra Carnia e Austria. Uscendo dalla cattedrale, sono caduto, fratturandomi il polso destro e un dito della mano sinistra. Mi hanno ingessato entrambi gli arti. È stata un'esperienza istruttiva. Ho ripensato ai bimbi colpiti da un missile piovuto sulla loro scuola a Damasco il venerdì santo del 2014. E ho rivisto Laurin, 9 anni, in ospedale: le avevano amputato le gambe. Quegli innocenti mi sorridevano. Non basta parlare: bisogna provare».
Del gesuita Paolo Dall'Oglio, rapito a Raqqa nel 2013, che cosa si sa?
«Nulla. Quando vengo a Roma, visito sempre la madre novantenne, le quattro sorelle e i tre fratelli. E non so mai che cosa dire. "Metti i sacchi di sabbia alle finestre", mi raccomandò padre Paolo l'ultima volta che ci parlammo, nell'aprile 2013. Si preoccupava della mia incolumità ed è finito nella fossa dei leoni».
Se il Papa la richiamasse da Damasco, sarebbe un distacco lacerante?
«Francesco ha dato la porpora alla Siria, non a me. Non può rubargliela».