Ebola in Sierra Leone: 4 giorni in quarantena

Data 30.07.2014
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In Sierra Leone, uno degli stati più colpiti dall'epidemia di Ebola, la popolazione dovrà rimanere in casa per quattro giorni, dal 18 al 21 settembre, per impedire il diffondersi dei contagi. Una decisione per consentire agli operatori sanitari di identificare e isolare nuovi casi evitando che la malattia si diffonda ulteriormente. Dichiarato lo stato di emergenza il governo chiude teatri e cinema. Acqua e cloro obbligatori nei supermercati. Scambio di pace evitato in chiesa durante la messa. Cresce la paura, ma la diffidenza della popolazione per le misure del governo rischia di moltiplicare il numero di infezioni. Le testimonianze dello staff di AVSI al lavoro per contrastare l'emergenza.

Fondazione AVSI ha lanciato una raccolta fondi per far fronte all'epidemia di ebola in Sierra Leone. L'obiettivo è prevenire la diffusione del virus nel Paese africano, con interventi di informazione e sensibilizzazione delle comunità colpite e attività per identificare chi è potenzialmente venuto a contatto con il virus (contact tracing).

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15 settembre 2014
Leggi le parole di Ernest Sesay su Vita.it

«Sembra un paese in guerra», sono le parole di Ernest Sesay, presidente della ong Fhm del network dell'ong italiana Avsi. Le parole di Sesay arrivano da Freetown, capitale della Sierra Leone. «Qui nel nord la situazione è ancora critica. Così come le conseguenze dell'epidemia di Ebola. In strada non c'è nessuno, è difficile trovare cibo, i prezzi sono alle stelle». Nella capitale come in alcuni villaggi Avsi, ong presente in 37 Paesi del mondo tra cui appunto la Sierra Leone, sta lavorando per sensibilizzare la popolazione sull'importanza delle cure e della prevenzione contro l'Ebola.

Ma a preoccupare il cooperante locale non è solo l'aspetto medico «L'economia del paese ha subito un duro colpo. Il grado di povertà e di fame tra la popolazione è aumentato a vista d'occhio», prosegue Sesay. « Lo si vede nelle strade, dove i bambini e i ragazzi che prima dell'epidemia vivevano con l'elemosina, ora fanno tanta fatica a trovare cibo e sostegno»

Oltretutto a partire da giovedì 18 settembre, il Governo della Sierra Leone ha indetto quattro giorni di quarantena in tutto il Paese. L'obiettivo è quello di impedire il diffondersi dei contagi. Per quattro giorni nessuno potrà andare a lavorare, a scuola o al mercato. «La malattia rimane difficile da contrastare», racconta ancora Ernest Sesay. «Difficile anche solo avvicinarsi alle persone venute a contatto con il virus, che scappano terrorizzati alla vista dei medici. Alcuni, per esempio, dai villaggi sono scappati nei boschi appena hanno saputo che ci sarebbero stati dei test di ebola».

A fine luglio, Fondazione Avsi ha lanciato una raccolta fondi per far fronte all'epidemia di Ebola in Sierra Leone. Nel Paese l'obiettivo degli interventi della ong italiana è prevenire la diffusione del virus nel Paese africano, con interventi di informazione e sensibilizzazione delle comunità colpite e attività di contact tracing.

9 settembre 2014
Leggi l'articolo su Popotus Avvenire

8 settembre 2014
Leggi l'articolo su Vita

 

5 settembre 2014

"Stiamo lavorando su più fronti dall'inizio dell'epidemia per fornire beni d'emergenza necessari e per sensibilizzare le comunità con le informazioni utili per fermare la diffusione della malattia" queste le parole di Ernest responsabile del Family Home Movement, ong locale partner di AVSI dal 2000.

"Oggi abbiamo consegnato attraverso il Ministro del Social Welfare: riso, olio, dentifricio e sapone alle famiglie e sopratutto ai bambini messi in quarantena nelle zone di Kenema e Kailanhun" continua Ernest "Nei prossimi giorni consegneremo beni di prima necessità anche a Freetown".

Non lasciateci soli è il messaggio che arriva dagli operatori in loco a fronte del numero crescente di vittime che il virus continua a fare in Africa. AVSI con il Family Home Movement continua la sua campagna per portare aiuti urgenti e necessari a combattere la peggiore epidemia di Ebola nella storia. 

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30 agosto 2014Leggi le parole di Ernest su Avvenire

 

26 agosto 2014

Leggi le parole di Nicola Orsini su EuropaQuotidiano

 

23 agosto 2014

Leggi l'intervento di Nicola Orsini su l'Osservatore Romano

 

21 agosto 2014

Le parole di Nicola Orsini su AvvenireLeggi l'articolo su Vita

 

5 agosto 2014

Da Tempi.it

Intervista a Nicola Orsini, responsabile Avsi in Sierra Leone: «Si sono diffuse “voci”: la gente pensava che non ci fosse nessuna epidemia ma che le persone venissero ricoverate perché fossero loro espiantati gli organi»

Sierra Leone, il virus Ebola fa sempre più paura «e se la gente non avesse dato retta alle “voci” che si sono diffuse, non si sarebbe propagato così tanto». Nicola Orsini, responsabile di Avsi in Sierra Leone, è appena rientrato in Italia e racconta a tempi.it la drammatica situazione del paese. Nell'area Nigeria-Liberia-Sierra Leone ci sono già state 887 vittime e secondo l'Organizzazione mondiale della Sanità l'epidemia si estende più rapidamente degli sforzi fatti per contenerla. Nella capitale Freetown regna il caos: per arginare il contagio è stata anche dichiarata una “giornata nazionale dello stare in casa”, ma non è bastato per fermare il virus.

Come mai l'epidemia si è propagata così prepotentemente?

In Sierra Leone non si erano mai registrati casi di Ebola, che comunque aveva già colpito negli anni passati gli Stati limitrofi. A rendere la situazione così grave sono state le voci che si sono diffuse nei primi giorni in cui arrivavano le notizie di contagi. Inizialmente la popolazione pensava che il Governo locale volesse far concentrare l'attenzione mondiale su di sé per avere nuove risorse economiche. Poi che in realtà non ci fosse nessuna epidemia di Ebola, ma che le persone venissero ricoverate perché fossero loro espiantati gli organi. E invece che agire subito sulla prevenzione del contagio si è dato retta a queste voci.

Qual è stata la conseguenza?

Il virus non si trasmette per via aerea, ma per contatto con i liquidi corporei infetti del paziente, che si trova in preda a vomito, diarrea, emorragie interne ed esterne. La popolazione locale ha sentito dire che “non c'è vaccino” per l'Ebola. Vero, ma non significa che non ci sia una cura o non ci si possa salvare. In tanti malati hanno pensato che invece che andare in ospedale fosse meglio morire accanto ai propri cari. Così facendo hanno contagiato anche i famigliari. Ma non gli si può dare del tutto torto. In questa parte dell'Africa molto spesso ospedale fa rima con la parola morte e non con la parola cura.

È vero che l'Europa non corre rischi?

Il rischio è davvero basso. Se anche arrivasse un malato, con la febbre emorragica già in corso, sarebbe prontamente individuato e curato, con gli standard che competono gli ospedali europei. Si procederebbe con trasfusioni e flebo di liquidi idratanti, l'unico rimedio contro Ebola, e probabilmente il malato sopravvivrebbe.

Lei è appena rientrato da un Paese a rischio. In aeroporto ci sono controlli?

La mia esperienza non è idilliaca. All'aeroporto di Freetown io e la mia famiglia siamo stati ricevuti da un medico, che ci ha chiesto di firmare un'autocertificazione per dichiarare che stessimo bene e che non avessimo sintomi. Dopo di che ci ha misurato la temperatura e l'ha trascritta su questo certificato, che mi è stato dato per portarlo con me durante il viaggio e consegnarlo al mio arrivo alle autorità di competenza. In realtà una volta atterrati in Italia non abbiamo subito ulteriori controlli medici, né avuto particolari disagi.

Avsi sta portando avanti una campagna speciale per aiutare la popolazione della Sierra Leone?

Oltre a me, a Freetown ci sono altre sei persone che portano avanti l'azione quotidiana di Avsi, un'azione soprattutto educativa. La Capitale conta un milione di abitanti, il resto della Sierra Leone 6 milioni, che vivono tutti nelle campagne. Ed è qui che si fanno più forti i residui di tribalità, le credenze, la poca fiducia uno nei confronti dell'altro. Anche nel caso dell'epidemia di Ebola c'è di base un problema educativo. Se i cittadini si fidassero più delle autorità e non del sentito dire si sarebbero potuti evitare molte morti. Che in Sierra Leone adesso sono ferme a 24. Ma già ieri sera i miei colleghi a Freetown mi hanno fatto sapere che c'è stato un nuovo morto nell'ospedale a est della capitale e che l'edificio è stato messo in quarantena.

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31 luglio 2014

L'epidemia ha già ucciso almeno 180 persone nel paese e 729 in tutta l'Africa occidentale. Secondo l'Organizzazione mondiale della Sanità negli ultimi quattro giorni si sono registrati 57 casi di morte. I casi di persone che hanno contratto il virus sono già 1300.

L'ebola in Sierra Leone raggiunge anche Freetown. Sono stati segnalati alcuni casi di contagio, mentre le autorità hanno ufficializzato il primo decesso nella capitale: una donna di 32 anni è morta sabato a causa del virus, proprio quando sembrava che i contagi fossero stati circoscritti con successo alle regioni orientali di Kenema e Kailahun. Ormai l'epidemia è in tutta la nazione: delle 14 regioni della Sierra Leone, 13 hanno segnalato casi di contagio.

“Il governo ha chiuso i teatri, i cinema, i bar, tutti i luoghi di aggregazione a Kailahun e nelle zone più colpite. E ha rimandato a fine agosto gli esami pubblici di terza media previsti a luglio. Ora la tensione comincia a sentirsi anche qui a Freetown”, racconta Nicola Orsini, che da anni lavora in Sierra Leone per la ong italiana Fondazione AVSI, attiva in 37 paesi in via di sviluppo.

Ascolta la sua testimonianza ai microfoni di Radio Capital:

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Da giugno il governo e la società civile hanno rafforzato le misure di prevenzione per fermare il contagio, che avviene in modo molto rapido tramite il semplice contatto con i fluidi corporei di persone infette. Oltre ai checkpoint per circoscrivere l'epidemia, i centri sanitari dedicati, sono i luoghi pubblici a essere oggetto delle misure precauzionali più severe.Nei supermercati i gestori invitano tutti i clienti a lavarsi le mani con acqua e cloro, l'unica sostanza in grado di uccidere il virus, messa a disposizione agli ingressi.

Nelle chiese durante le messe, sempre affollate in un paese con il 15% della popolazione cristiana, non ci si stringe più la mano: lo scambio di pace è stato sostituito da un inchino con la mano destra sul cuore, e il sacerdote dà l'eucarestia nelle mani e non più direttamente in bocca.

Abitudini costrette a cambiare, segnali piccoli, ma che amplificano il senso di paura tra la popolazione. La Sierra Leone sta vivendo un'emergenza nazionale dal 25 maggio, quando si sono verificati i primi casi di Ebola, a 60 giorni dallo scoppio dell'epidemia in Guinea. Oggi, nel giro di due mesi, 405 sierraleonesi sono stati infettati e 182 sono deceduti a causa del virus. E i numeri potrebbero essere ancor peggiori: se si considerano i casi sospetti, non ancora confermati dai test clinici, la Sierra Leone risulta essere il paese più colpito tra i tre dell'Africa occidentale (Guinea, Liberia e Sierra Leone). E mentre in Guinea i casi di infezioni sono sempre meno, settimana dopo settimana, in Sierra Leone si fatica ad arginare l'epidemia che, anzi, sembra diffondersi a macchia d'olio.

Tra le cause, la diffidenza della popolazione a farsi curare dai centri nazionali. Sono ancora in molti ad evitare di prendere contatto con i medici in caso di sintomi della malattia, a fuggire dagli ospedali non appena la diagnosi è confermata, a nascondere le persone infette nelle case e nei villaggi, aumentando così il rischio di contagio e la diffusione della malattia.

Soprattutto nelle zone rurali e nei villaggi, la popolazione fatica a mettere da parte credenze e pratiche tradizionali, come quelle che riguardano la sepoltura dei cadaveri. E il virus ha un'alta probabilità di essere trasmesso anche da una persona deceduta”, spiega Nicola Orsini, che attualmente lavora per sensibilizzare la popolazione del Sierra Leone sui rischi della malattia. Inoltre, nella mentalità delle popolazioni rurali gli ospedali sono spesso percepiti come luoghi di morte e non di cura e dunque si preferisce far curare i propri cari dallo “stregone” locale. E' forse a partire da queste credenze che in alcune aree si è diffusa la voce che addirittura l'Ebola non esista e che sia solo un'invenzione del governo per far fuori oppositori politici e per attrarre i finanziamenti internazionali.

LA RISPOSTA DI AVSI ALL'EMERGENZA

Al di là delle accuse al governo – il cui messaggio di allarme è stato definito dai media troppo intimidatorio – la diffusione del virus in Sierra Leone rende indispensabili le attività di sensibilizzazione tra la popolazione.

Spesso la diffusione di messaggi informativi non basta – continua Nicola Orsini - serve una presenza costante fra la gente, in grado di sfondare il muro della diffidenza e della paura. Questo è ciò che anche noi di AVSI insieme al partner locale FHM, stiamo cercando di fare coinvolgendo il nostro staff locale in attività di informazione e sensibilizzazione delle comunità in cui vivono, rassicurando la popolazione sulle concrete possibilità di guarigione. Nel caso poi l'epidemia dovesse diffondersi nelle aree in cui operiamo, prepareremo lo staff a svolgere un'attività di “contact tracing” cioè di individuazione delle persone con cui i malati sono entrati in contatto e che quindi potrebbero aver contratto la malattia”.ù

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