giovedì 8 settembre 2011
La baraccopoli di tende che si vede arrivando con l'aereo a Dadaab è immensa e fa impressione, soprattutto a chi l'ha vista nascere. Più di 17.000 persone trasferite nell'ultimo campo attrezzato dall'Alto Commissariato per i Rifugiati delle Nazioni Unite (UNHCR) negli ultimi tre mesi, altre 800 nel campo più recente, ancora immerso nella scomoda boscaglia semidesertica che circonda Dadaab. Qua mancano ancora le connessioni dell'acqua, non c'è nulla. Vento e sterpaglia. È un posto desolato dove le precarie condizioni di chi ci vive emergono in maniera potente e devastante. Non c'è ancora un ospedale attrezzato, solo una tenda che accoglie un presidio medico di prima assistenza.
Ma le persone si sono organizzate. Iniziano la loro nuova vita con lo stesso coraggio e la stessa fiducia che le ha portate ad affrontare il viaggio dalla Somalia al Dadaab, qui in Kenya. Almeno qua sono al sicuro. Disperati perché hanno lasciato tutto ciò che possedevano nel miraggio di una terra promessa che in realtà è un'insieme di grandi tende bianche che si estendono a perdita d'occhio. Ma certo più al sicuro di prima. Nell'altro campo, quello più “anziano”, la vita è diversa. Ci sono negozietti che vendono di tutto. Ci sono i punti di ritrovo per la preghiera. Le persone si incontrano, camminano, passano la giornata come meglio possono, guardando in maniera diffidente e incuriosita tutte le telecamere e le macchine fotografiche che arrivano per cogliere istantanee della loro vita. Il vento è così forte da togliere la visibilità o far crollare le grandi tende adibite a magazzino per il cibo o altri generi di prima necessità. L'unico odore che si sente è quello della terra. La terra sabbiosa di Dadaab ricopre tutto e rende le tende bianche un tutt'uno con il paesaggio circostante in un solo giorno.
Persone, case, automobili … tutto dello stesso colore rossiccio che dona un qualcosa di surreale all'ambiente. La terra ti entra negli occhi e nella bocca, ti avvolge i capelli e ti si appiccica addosso. Impossibile lavarsela via, l'acqua non va sprecata. Camminando incontri sempre i bambini. Sono centinaia, curiosi, in giro a gruppetti. Continuano ad urlare “Hello!” “How are you?” in una maniera continua e quasi ossessiva.
“How are you?”, “How are you?” sono forse le uniche parole di inglese conosciute. Un gioco. Io sto bene bambino, e tu come stai? Cosa fai in giro? Perché non sei a scuola? Noi di AVSI siamo impegnati proprio nel settore educativo. Costruiamo classi e rimettiamo in piedi scuole. Ma siamo ancora nell'emergenza.
Le strutture scolastiche sono inadeguate alla domanda. Spesso in una classe ci sono 120 studenti. 120! Ecco perché dobbiamo andare avanti. E avere pazienza. I tempi sono lunghi. Ma non dobbiamo scoraggiarci. Nelle emergenze l'istruzione non è considerata come una risposta immediata, certo non quanto cibo, acqua e sanità.
A volte, qui, immersi in questi occhi spalancati che chiedono tutto, ti domandi se le persone lontane da te, lontane da questi occhi si rendano conto di quanto sia importante invece una scuola, un punto di riferimento amico dei bambini. Un luogo protetto dove fare qualcosa di interessante e costruttivo per crescere. Il viaggio, i pericoli affrontati, le atrocità viste. La fame, la sete, la stanchezza. Abbandonare la propria casa, gli amici, i parenti, la propria stabilità, la propria vita. Tutto questo è già tremendamente difficile per un adulto, ma per un bambino … per un bambino può cambiare il corso di un'esistenza. Questi ragazzi hanno bisogno di un posto stabile dove stare. Un posto per loro, dove possano riconoscersi e non avere più paura del fato, del viaggio, delle bestie feroci e della guerra.
Dove possano ridere e giocare come tutti i bambini del mondo. Qui nel campo il passatempo preferito dei bambini è quello di inseguire le macchine che passano alzando la sabbia per farsi ricoprire da capo a piedi. Mentre tu in auto non puoi non interrogarti sull'assurdità di questa situazione. Ma quando ti fermi e apri lo sportello, una nuvola di faccine impolverate e ridenti ti circonda, ti apre il cuore. E ti domanda in modo cantilenante “How are you?”, “How are you?”.
Maria Li Gobbi, cooperante di AVSI a Dadaab