Dal Sussidiario.net
"Qui a scuola anche se sbagli nessuno ti uccide". Lo ha detto Scovia, 8 anni di Kitgum, mentre disegnava accanto alla maestra durante i corsi di recupero psicosociale di AVSI per i bambini traumatizzati dalla guerra in nord Uganda. Un passato terribile. Una storia feroce, eppure con la speranza di farcela chiaramente incisa sul foglio. Se i disegni del passato di Scovia tratteggiavano il dolore, quelli del presente desiderano una vita normale. Serena. Scovia non sarà mai ricca e famosa. Però viva. E non sola. Perché qualcuno ha detto “io sono con te”.
Oggi è diventata una sarta, si è sposata e ha una bambina. L'ha chiamata Elizabeth, in onore di chi l'ha sostenuta per anni a distanza. Dopo tanti anni, quella foto è ancora sul mio frigorifero. Un po' stropicciata, ma ogni volta che la guardo mi commuovo. Una giovane donna fiera e felice abbracciata alla sua bambinetta.
Leggo oggi sulle agenzie stampa che i vescovi calabresi, dopo la recente tragedia di Lampedusa, "si sono sentiti partecipi delle sofferenze di tanti immigrati che sbarcano sulle coste italiane". L'esodo di persone, che fuggono disperate dai loro Paesi, e l'orrore per la tragedia della morte di molti, spingono i vescovi "ad esortare i fedeli perché aprano il cuore a uno sviluppo sempre crescente del sentimento di accoglienza…” Verranno ascoltati? Come raccontare di queste persone affinchè si comprenda senza cadere nel finto buonismo?
La mia vicina di pianerottolo, la signora Maddalena che ha quasi cento anni, aveva il padre che lavorava nei cantieri in Eritrea. Quando insieme beviamo il caffè, ogni tanto mi racconta storie di quella colonia africana che ora è passata alla ribalta per la tragedia di Lampedusa. Allora era il faro di speranza dei nostri padri in cerca di lavoro e futuro, mentre oggi è ricordato solo come il paese che ha dato i natali a centinaia di persone senza nome, morte annegate nei nostri mari. Uomini fuggiti da un passato di orrore così doloroso che li ha forgiati ad affrontare qualsiasi domani.
Leo Capobianco, due anni fa da Dadaab, il campo profughi del Kenya che accoglie famiglie in fuga dalla Somalia, raccontava l'orrore che leggeva negli occhi delle madri che avevano visto trucidare i loro mariti e i loro figli senza poter fare nulla. Ma solo scappare con il resto della famiglia per centinaia e centinaia di chilometri a
piedi, nella savana, dove le bestie feroci di notte si sbranavano i neonati. Una volta arrivate nel campo,
riparate da un pezzo di plastica e di cartone, chiedevano solo la scuola per i figli rimasti, “in modo che
potessero avere un futuro migliore”.
Di ritorno dal campo profughi di Marj El Kok, in Libano, Marco Perini non può dimenticare un bimbo piccolissimo: “Avrà avuto un anno o poco più e vederlo gattonare da solo al buio di una tenda per profughi mi ha fatto venire i brividi. E' da tempo che stiamo sostenendo queste persone scappate dalla guerra in Siria, ma non puoi farci l'abitudine. Chi si prenderà cura di lui? Suo padre tornerà a casa questa sera? Chi gli darà da mangiare domani?”
“Chi si prenderà cura di loro?” si domandavano le mamme malate di Aids del Meeting Point International di Kampala, in Uganda, ogni volta che guardavano i loro figli, sapendo che sarebbero rimasti orfani a causa della malattia. Donne condannate, ma che non per questo hanno rinunciato a vivere da protagoniste, costruendo un tessuto sociale più unico che raro. Chi muore lascia alle amiche i propri figli. La scuola è stata costruita. Tutte insieme seguono la terapia e danno conforto e il buon esempio agli altri. Ma prima dell'arrivo di Rose, la direttrice, le cose non erano così. Le donne non si curavano e chi era malata veniva esclusa e allontanata. La povertà dilagava. La capacità di Rose è stata quella di far capire che, nonostante la malattia, nonostante la condizione in cui vivevano, queste donne avevano un valore.
“Tu vali comunque e certamente di più della tua stessa malattia!”. Parole sante che hanno spalancato un mondo e fatto a pezzi i luoghi comuni della povertà in Africa. Accendendo il desiderio di una vita migliore, tutto il resto si è messo in moto. E' nato così un percorso di sviluppo sostenibile che sta contribuendo a eradicare la povertà.
La povertà è indivisibile, come la “libertà” per John F. Kennedy nel suo famoso discorso Ich bin ein Berliner, siamo tutti berlinesi, pronunciato a Berlino nel 1963 per sottolineare vicinanza e amicizia . La povertà, come la libertà, non si può spezzare, e quando un solo uomo è povero, tutti siamo poveri.
Magari non delle stesse cose. In Ecuador, la giovane Amparito che vive sulle Ande con le famiglie più fragili, ha scritto che “il problema della povertà non è che mancano le cose, è che manca la speranza. Manca la coscienza di quanto uno vale, di quanto uno possa essere protagonista della sua vita.” Don Pigi, missionario da oltre 40 anni nelle favelas in Brasile, quando l'ho incontrato mi ha descritto una povertà diversa dal suo arrivo, “certo più ricca di cose, ma più misera e di uomini soli”.
Uomini soli come tutti i morti di Lampedusa avvolti in quei teli di plastica. Abbandonati al loro destino e incontrati solo perché cronaca. Chi li piangerà? Uomini dimenticati da tutti ancora prima della tragedia solo perché abitanti di una terra lontana e difficile da capire. Persone così diverse da non voler mai conoscere o aiutare. Esseri umani invisibili che il nostro cuore non vuole accogliere perché troppo attento a ricercare una felicità fatta solo di cose che stanno costruendo un mondo feroce. E misero.
Dire “sì, ci sto. Io sono con te!” significa dire “Io sono Lampedusa”. Siamo tutti Lampedusa. Significa fare un buon governo, un mondo buono, significa costruire l'umano. Significa non pensarsi soli, ma mettersi in moto per creare sinergie per favorire lo sviluppo della comunità. E affinchè sia duraturo, bisogna farlo bene e per sempre. “Contro la globalizzazione dell'indifferenza” è arrivato il momento di capire che il mondo va accudito come se stessimo crescendo i nostri figli. Per sempre. In Italia come in Somalia.
Elisabetta Ponzone