COSTA D’AVORIO, LA RICOSTRUZIONE POSSIBILE

Data 09.09.2011

CostaavorioGiovedì 21 aprile 2011, nella sede AVSI di Milano, si è tenuto un incontro con Carlo Maria Zorzi, rappresentante della Fondazione in Costa d'Avorio, di passaggio in Italia e già di nuovo in partenza. Si è soffermato sui recenti, drammatici avvenimenti nel paese africano. AVSI è presente nel paese dal 2008 e ha in corso un programma socio educativo e di sostegno a distanza per 10.700 bambini vulnerabili con problemi legati all'HIV e all'AIDS. Sostegno che si estende alle loro famiglie, in partnership con USAID, la cooperazione americana.

Per rispondere ai bisogni immediati della popolazione che sta fuggendo da Abobo, nel distretto di Abidjan, teatro di violenti scontri, AVSI ha aperto un campo sfollati per l'accoglienza di oltre 1.500 persone, grazie alla disponibilità del Parroco di Saint Ambroise e la collaborazione della Caritas parrocchiale. Le Nazioni Unite stimano che abbiano lasciato la loro casa tra 200 e 300 mila persone dallo scorso 6 marzo.

A causa della situazione in continua evoluzione molte famiglie con bambini sostenuti a distanza da AVSI si stanno spostando, abbandonando le zone più a rischio. Tutto il personale AVSI è stato invitato a partecipare, compreso quello della sede di Cesena, che era in collegamento.

Hanno presentato l'incontro Maria Teresa Gatti, Libero Buzzi e, appunto, Carlo Zorzi. Maria Teresa ha introdotto brevemente la figura di Zorzi, che da quindici anni lavora per AVSI, impegnandosi in diversi paesi. Per molto tempo responsabile dei progetti ad Haiti, da qualche anno si occupa di Africa, in particolare di Africa dell'Ovest, come nel caso della Costa d'Avorio.

In Costa d'Avorio, nei primi giorni dello scorso marzo, la guerriglia è scoppiata violenta. Niente a che vedere con le rivendicazioni della cosiddetta “primavera araba”, desiderio di indipendenza, democrazia e chissà cos'altro. La Costa d'Avorio, no. E' diversa. Confinante con Liberia, Guinea, Mali e Burkina Fasu, il paese vive una complessa situazione politica dovuta agli scontri tra i sostenitori del presidente destituito, Laurent Gbagbo, e quello riconosciuto dalla comunità internazionale, Alassane Ouattara.

Una crisi che subito colpisce la popolazione, generando caos e violenze. I primi a subirne le conseguenze sono, insieme alla popolazione, i rappresentanti delle ong. Anche AVSI è presente da anni nel paese e quando la guerra scoppia, immediatamente il pensiero corre a Carlo Zorzi, responsabile AVSI laggiù. “Da subito la mia preoccupazione è stata per la sua incolumità”, spiega Libero Buzzi, responsabile progetti dell'area da Milano. Carlo è il rappresentante di AVSI in Costa d'Avorio, lavora con decine di persone tutti i giorni, conosce le loro famiglie così come i bambini del sostegno a distanza che la Fondazione aiuta.

Poi, d'improvviso, le violenze. “Ero preoccupato per la sua vita. Eppure, guardando come lui lavorava lì, giorno per giorno, ho capito che non era uno sforzo inutile. Ogni giorno aveva presente le singole situazioni dei colleghi, delle persone che gli stavano intorno. Era lì per accompagnarli, non per fare l'eroe. Ma per accompagnarli anche in quel momento. Ecco le ragioni di una presenza. Questo ha aiutato anche me a vivere meglio la costante preoccupazione che avevo per la sua incolumità”.

L'11 aprile Gbagbo viene catturato, ma la situazione rimane comunque critica in alcune zone. Un'instabilità che affonda le sue radici ben prima della guerra.

“La crisi della Costa d'Avorio – ha spiegato Zorzi – è l'esito di una crisi politica, economica e finanziaria di anni. In Africa, tra il 2011 e il 2012, una dozzina di Stati sono chiamati alle elezioni e in quasi la maggioranza dei casi la prassi è quella di NON accettarne i risultati. Quello che stiamo vivendo in Costa d'Avorio nasce da una crisi di questo tipo. Nei mesi scorsi tutte le banche hanno chiuso, gli assegni sono diventati carta straccia, i bancomat inutilizzabili. Solo i contanti in circolazione potevano essere utilizzati”. Una situazione che ha ovviamente gettato l'intero paese nel caos, per l'impossibilità di rispettare i pagamenti, di far percepire gli stipendi e, quindi, di acquistare o vendere qualsiasi di tipo di genere alimentare o d'altro tipo.

“Ad un certo punto la situazione è esplosa. Una guerra di nervi che ha portato sull'orlo del baratro un paese che prima trainava tutti gli altri paesi dell'Africa dell'Ovest. Ci sono stati cinque tentativi di negoziazione tra Ouattara e Gbagbo, senza risultati. Così, il primo ha deciso di ricorrere a quella da lui definita come “forza legittima”. Di conseguenza Gbagbo si è dotato di centinaia di mercenari liberiani. Gli scontri sono nati da lì”. Siamo a marzo, la situazione nella zona diventa difficile. Tanti collaboratori di AVSI sono costretti ad abbandonare Abdijan, dove c'è l'ufficio centrale, per via delle persecuzioni.

“L'embargo della comunità internazionale poco a poco ha asfissiato la gente, le imprese e anche il nostro lavoro. Poi si sono aggiunti i combattimenti tra i due eserciti. Sembrava di essere di fronte al genocidio rwandese” – racconta ancora Zorzi -. “Molti dei nostri sono sfollati, perché qui è tutto molto etnicizzato: dal cognome risali al villaggio di appartenenza di una persona e quindi, al suo orientamento politico”. Nel caos generale, con i francesi che intervengono nel conflitto per ristabilire l'ordine al fianco di Ouattara, i nostri di AVSI si accorgono che l'importante è comunque rimanere.

“Vedevamo sfilare 200.000/300.000 sfollati, con i sacchi in testa. Ci siamo messi ai crocicchi delle strade a chiedere quanti di loro avessero un posto dove andare. In molti rispondevano di non averne nessuno. Così è nata l'idea di mettere in piedi un campo che li potesse accogliere, in collaborazione con una parrocchia locale”.

Un milione di persone abbandonano Abdijan per tornare ai propri villaggi, questo rende difficile contattare molti dei dipendenti AVSI (ad oggi, una di loro risulta irrintracciabile) e molti dei beneficiari dei progetti. In quei giorni terribili, Zorzi decide di rimanere nella sua casa di Abdijan, anche se sua moglie e il figlio sono da oltre un mese riparati a Dakur, fuori dal Paese.

“Con un collega siamo rimasti chiusi in casa per dieci giorni. Fuori vedevamo rubare le macchine, entrare nelle case, abusare delle persone. Episodi violenti”. Non parla però di guerra civile. “Quella è stata scongiurata, perché la gente ha voluto evitarla”. Quando la situazione si fa pericolosa seriamente, Zorzi racconta di aver chiesto ospitalità al campo militare dell'Onu.

“Le attività di AVSI erano ferme o comunque molto rallentate, così mi sono presentato al campo per chiedere ospitalità. Me l'hanno subito accordata”. Nei giorni antecedenti la cattura di Gbagbo, Zorzi è riuscito a rientrare in Abdijan, ormai quasi completamente riconquistata dalle truppe francesi, e ad evacuare con gli elicotteri di questi ultimi. Infine, a rientrare in Italia.

“Durante il conflitto abbiamo visto che ci sono decisioni da prendere in fretta, responsabilità da condividere. Noi torneremo e ricostruiremo. Sarà molto difficile. Ma lo faremo”. Si torna e ci si rimette al lavoro, senza chiacchiere e parole inutili che non servono. Con gli occhi spalancati e le mani indaffarate a rimettere in piedi quel che, in poco tempo, una brutta guerra ha cercato di spazzar via.

RAI 1 tg1

TV2000- MENTRE

Radio Uno Rai, “Inviato Speciale” di sabato 9 aprile, a cura di Enzo Nucci

Leggi le interviste a Carlo Maria Zorzi sul Sussidiario.net

Leggi le interviste a Carlo Maria Zorzi su Tracce

 

I Diari di Zorzi

Abdijan, 19 marzo 2011

Ieri sera prima di addormentarmi ho fatto una cosa inabituale per me da anni. Una cosa che ho sempre chiesto ai miei colleghi e collaboratori di non fare, per ovvie ragioni anche di sicurezza.

Non che questi mi abbiano sempre ascoltato. In ogni caso ho messo l'opzione «silenzio» sui miei telefoni cellulari. Sabato mattina dovevo riuscire a dormire più che potevo. Per sopravvivere alla pressione psicologica di questi tempi dovevo dormire, dovevo prendere questo rischio malgrado mi senta addosso un pesante senso del dovere e della responsabilità («e se proprio stanotte mi chiamano per evacuare ? Se proprio stanotte i miei colleghi hanno bisogno? »). Mi sono svegliato alle 10. Un telefono aveva immancabilmente suonato alle 6,58.

Il cielo era terso e tirava anche un delicato venticello, due cose rare ad Abidjan dove è sempre nuvoloso con una umidità che rasenta il 90% e non si muove una foglia per ore intere. Questa mattina ho voluto far finta che fuori dalle mura di cinta della casa che abito andasse tutto bene: nessun combattimento, nessuna crisi, nessun morto o ferito…

Ho spalancato le porte di casa, ho deciso che tutto andava bene, che potevo fare colazione e pranzo insieme –data l'ora - nella veranda, sulla tavola blu di plastica con attorno le tre sedie bianche. Anch'esse di plastica. La spesa era già stata fatta, in modo da poter passare il week end asseragliato in casa : un posto che per quache ora possa garantirmi un po' di pace, per trovare la forza per vivere la prossima settimana, preventivata come dura e pericolosa. Il frigo è pieno di quanto serve per sopravvivere in caso di emergenza. Ho messo su il caffè, ho riempito il bicchiere di succo di frutta, ho messo il giallo crudo di tre uova di quaglia nella scodellina e ho tirato fuori il prosciutto e un po' di formaggio: non mi sono nemmeno dimenticato di acquistare il pane, come la settimana scorsa. Quando tutto è stato bello pronto sulla tavola, ho ritrovato l'altro dramma che mi accompagna da tempo: sono solo!

E non ho potuto costruirmi un altro paradiso, questa volta dentro le mura di me stesso. Sono solo ! Le sedie bianche di plastica vuote : mancano mia moglie Evelyne e mio figlio Sebastiano, che sono a Dakar da ormai due mesi per ovvie ragioni di sicurezza, a 1820 kilometri di distanza in linea d'aria e due ore e mezza d'aereo. E non c'è niente che li rimpiazzi : posso costruirmi un effimero e temporaneo paradiso dentro le mura di cinta di casa per proteggermi da cio' che di brutto c'è fuori ma non posso – e non riesco- a costruirmi qualcosa che mi protegga da questa lacerante lontananza. Ho dovuto prenderne atto nel più breve tempo possibile per non tirare un calcio alla tavola blu di plastica che avevo messo al centro delle mie attenzioni di questo sabato mattina e farla volare nel giardino con tutte le cose sopra. Ho mangiato colazione e pranzo allo stesso tempo ; ma ho una digestione sempre più lunga e sempre più difficile…

Abdijan, 20 marzo 2011

Fuochi di mortaio e fuochi d'artificio


L'umidità mirende appiccicoso e fatico a respirare. La notte è nuvolosa, proprio come il giorno trascorso, e rumorosa tanto da non poter dormire tranquillo. Ma i rumori non sono gli stessi del giorno: non voci squillanti, non rombi di motori inquinanti, non il muezzin che canta sul minareto della vicina moschea… ma i boati sordi dei mortai e dei cannoni seguiti dal crepitio delle armi leggere.

Vengono da due, al massimo tre chilometri di distanza in linea d'aria ; vengono da quel quartiere al nord di Abidjan che tanto è stato teatro –ed è ancora –di scontri tra forze militari opposte. Cosa c'è in me da volerli sentire, seduto sul muretto di casa insieme al guardiano della mia sicurezza? Perché non vado a dormire? E' notte fonda, sono stanco, e domani chissà cosa riserverà il lavoro e la fatica quotidiana. Sento solo i colpi, quello che vedo ad occhi chiusi è frutto dell'esperienza, non la prima di momenti cosi' tragici. Sono le notizie internet del mattino dopo che mi dicono quante migliaia di miei compatrioti hanno vegliato per le strade, i giardini, le piazze… ascoltando il crepitio dei fuoci d'artificio e apprezzandone la varietà dei bei colori e dei variegati disegni nei cieli bui.

La festa dei 150 anni dell'Unità d'Italia. Le immagini di Torino, Roma sono bellissime, l'inno di Mameli cantato da Benigni a Sanremo altrettanto, notizie e opinioni fanno grande l'avvenimento con tanta partecipazione di popolo. Vado alla ricerca di documenti che rinfreschino la mia memoria di studente sulla storia di quei tempi : penso a mio figlio che non la conosce perché non l'ha studiata, inserito com'è nel sistema scolastico francese all'estero che impara la storia di altri paesi e altri popoli.

Ma penso anche, che non avrebbe sfigurato in mezzo a tanta gente che cantava a sguarciagola l'inno di Mameli perché lo conosce dal principio alla fine e ne va fiero, con la mano sul cuore. Mi scuotono e mi richiamano alla realtà le altre foto e le altre notizie dei fuochi della notte : non quelli d'artificio nei cieli italiani ma quelli delle armi pesanti e leggere che avevano scosso i sonni degli abidjanesi. I colori sono della morte, delle ferite, della distruzione di case e cose, delle popolazioni che con i loro pochi fardelli sulla testa abbandonano le zone di conflitto per andare chissà dove e chissà da chi, ma comunque lontano da tanta disperazione, semmai esista un qualche posto che oggi ne sia indenne.

Ognuna racconta storie di disperazione, di separazione, di divisione etnica, religiosa, politica. Proprio il contrario della festa dell'Unità d'Italia che avrei dovuto cercare di celebrare anch'io, qui, seppur lontano da casa ed in condizioni difficili.

Alla sera, telefonando a mio figlio, a Dakar dove vive più tranquillo con la mamma, gli ho detto che oggi era la festa dell'Italia: mi ha detto che non era mica il 2 giugno! Il ripasso del mattino mi ha aiutato a fargli un quadretto di una festa «eccezionale» cercando di dargli il senso e la ragione. Non dimenticando le camicie rosse biellesi di Nino Bixio : mi ha chiesto di regalargliene una per farla vedere ai suoi compagni di classe che, di tante nazionalità diverse, non conoscono la storia d'Italia ; o almeno di quel pezzo di storia che vale la pena di festeggiare con i fuochi d'artificio. Per contro, la storia dei fuochi delle armi della notte trascorsa di Abidjan, quella, nel giorno del 150mo, al telefono, non ho voluto raccontargliela.

Bollettino nr 1 del 31 marzo 2011 ; ore 9,00 locali

La guerra che fino a tre giorni fa spazzava via tutto nell'ovest del paese al confine con la Liberia è arrivata ad Abidjan. Con una progessione impressionante le FRCI (forze repubblicane della Costa d'Avorio, nuovo nome dato da Ouattara alle forze armate della CdA fuse con le forze della ex ribellione del Nord dell'inizio degli anni 2000) hanno conquistato tutte le città senza combattere. La capitale politica Yamoussokro è stata conquistata mercoledi sera dopo aspri combattimenti –i soli segnalati- a Tiebissou cittadina a 40 km da Yamoussokro. Le forze fedeli al presidente uscente o hanno diserato ben prima dell'arrivo delle FRCI oppure si sono alleati con questi. Nella notte le FRCI sono avanzate ancora (rispetto alla carta allegata che da l'idea della progressione, dei 4 fronti aperti e cha tali si presenteranno su Abidjan, delle principali città conquistate) e sono alle porte di Abidjan dove sembra chiaro verrà giocata la partita finale.

Alla ex televisione di stato, diventata strumento politico del presidente uscente, ieri sera in apertura del giornale delle 20, la presentatrice ha annunciato un messaggio di Gbabgo al « suo popolo ». L'attesa è durata fino alle 23,30 quando il portavoce ha annunciato che il messaggio è stato differito. Non si sa quando. Le interviste rilasciate dal primo ministro di Ouattara non lasciano alcun dubbio sull'arrivo (ma ormai direi, sulla presenza) delle FRCI a Abidjan e alla presa del potere nelle prossime ore.

Si tratta di capire se ci sarà battaglia tra militari, se ci sarà una guerra civile, se Gbabgo cederà, se le sue forze armate lo abbandoneranno. Al momento ad Abidjan non si muove una foglia, negozi e uffici chiusi, circolazione stradale totalmente assente, la scuola francese come le altre scuole sono chiuse. Colpi di arma da fuoco sono intesi qua e la senza riuscire a capire chiaramente chi stia operando. Da non dimenticare che a Abidjan opera da tempo quello che è chiamato « comando invisibile » che ha conquistato tutto il comune di Abobo contro le forze fedeli a Gbagbo, e quello di Nyama assicurandosi tutta la zona nord di Abidjan.

L'ambasciata tace e per ora non ha risposto al moi messaggio, per altro per nulla esagerato quando facevo riferimento che « fors'anche nelle prossime ore » si sarebbe già parlato della battaglia di Abidjan. Lo rilancio tra pochi minuti. Ovviamente tutti i nostri uffici sono chiusi e il personale è a casa propria. Funziona l'ufficio di Bouakè, dove, situazione inversa rispetto al 2000, la vita segue un corso normale e le attività sono svolte abbastanza regolarmente. Via skype sono in permanente contatto con l'ufficio di Bouakè.

Per ora è tutto.
Grazie dell'attenzione
Carlo

Bollettino nr 2 del 31 marzo 2011 ; ore 13,00 locali

Calma relativa ad Abidjan. Le FRCI in posizione di attesa alle periferie di Abidjan. Gli elicotteri M 24 Apaches delle UN sorvolano i cieli della capitale, i carri armati della base UN vicino a casa sono usciti nelle strade. Il capo di stato maggiore di Gbabgo rinuncia. I dignitari del regime di Gbagbo chiedono asilo politico a certi paesi africani. Ouattara deve esprimersi alla « sua » televisione nei prossimi minuti.

Grazie dell'attenzione
Carlo

Abdijan, 4 aprile 2011

La babele delle lingue


Da poco più di 24 ore ho chiesto la protezione delle Nazioni Unite, recandomi alla loro base militare che non dista troppo da casa mia. Poco prima dell'entrata in vigore del coprifuoco mi sono presentato all'ingresso della base. Ho consegnato il mio passaporto al militare di turno, ho dichiarato la mia nazionalità e ho chiesto «protezione». Mi è stata accordata, insieme ad una bottiglia d'acqua, quasi tre ore dopo. Del resto, era iniziato il coprifuoco e a casa non mi ci potevano più mandare. Certo, è un campo militare e non un hotel: vivo in un prefabbricato con un lettino, un salsicciotto di cuscino, un lenzuolo e una coperta dell'esercito del Ghana. Approfitto dei servizi « d'hotel a una stella » degli ufficiali ; vi assicuro è già un grande privilegio!

Di fatto, un cartellone sulla pista d'accesso annuncia che il campo è una base giordaniana, ma i contingenti all'interno sono almeno otto: giordani, ma anche pakistani, gente del Bangladesh, senegalesi, del Ghana, togolesi, nigeriani del Niger e credo di averli citati tutti. Ci sono delle cose che sai, a cui hai già fatto caso ma che sono uscite dalla tua testa senza aver lasciato traccia : non le hai assimilate, non ne hai fatto un'esperienza diretta. Sette nazionalità di questo tipo messe insieme ed è già la babele delle lingue. Perché se è vero che ci sono delle lingue veicolari, quelle riconosciute a livello mondiale, non è vero che tutti le sappiano parlare.

Tutti questi paesi hanno le loro lingue nazionali e una marea di dialetti, a tal punto che sovente neppure la lingua nazionale ufficiale e veicolare è conosciuta da tutti. Basta non aver avuto l'opportunità di andare a scuola. Non solo. E' necessario anche poter andare in una scuola dove viene insegnata almeno la lingua nazionale e non solo in dialetto locale.

Ho visto tribù in Kenya che dai loro villaggi distanti neppure 15 km già non arrivavano più a comprendersi e non potevano far uso della lingua nazionale (il kiswahili) perché in quelle zone, magari, il maestro che lo doveva insegnare non ci è mai arrivato. Capita anche qui, in Costa d'Avorio, trovare alcuni beneficiari dei progetti –donne e uomini che hanno avuto poche o nessuna opportunità di andare a scuola- che parlano il solo dialetto della loro etnia e non possono comunicare in francese. Così ci vuole una persona della stessa etnia che sappia il francese per far da interprete.

La babele delle lingue, che già conoscevo, mi è sta evidente oggi. Nella noia delle ore che passavano, guardando l'incrociarsi di tutti questi militari di nazionalità diverse non in grado di capirsi. Non basta essere militare per saper parlare le lingue. In paesi poveri, o strapopolati o altalenanti tra una crisi e l'altra, andare a fare il militare è assicurarsi un lavoro. Lascio perdere che sia anche assicurasi una posizione. Ma l'esercito non ti manda a scuola, soprattutto in certi paesi e soprattutto per la maggior parte di quelli che imbracceranno sempre e solo un fucile in prima linea: ti manda al fronte e la lingua che impari non è quella veicolare internazionale ma quella che fa il tuo kala: che, ho imparato, è il diminutivo di kalashnikov.

Valgono sempre i segni e i gesti : impossibilitato a farsi comprendere per una lingua veicolare internazionale il militare del Bangladesh si è toccato il ventre : aveva fame e non c'era più riso in circolazione. Da tre giorni siamo sottomessi a uno stretto coprifuoco che prende 18 ore al giorno, quel poco di spazio che c'è per uscire non lo utilizza nessuno, perché la situazione di insicurezza non lo permette. I più coraggiosi cercano qualche negozietto di alimentari che o è chiuso o è sprovvisto di tutto. Da quasi una settimana siamo costretti a questo tran tran e qualcosa da mettere sotto i denti non lo si trova più facilmente. Anch'io ho usato le mani per fargi capire che avevo un po' di fame ma che per oggi non ci sarebbe stata altra soluzione. Poi è calato il silenzio tra noi. E dopo un attimo se n'è andato. A parte i discorsi con i commilitoni della stessa nazionalità, credo di essere stato, per quel militare, uno dei suoi rari interlocutori. Sigh !

Bombardano qui intorno

«Sono contento che non li abbiate sentiti». Cosi ho detto a mia moglie e a mio figlio nella telefonata serale. Non hanno sentito i bombardamenti, perché stanno a Dakar mentre io sono rimasto qui ad Abdijan. Il sacrificio di essere lontani è stato ripagato già per il solo fatto che non li hanno sentiti. I potenti colpi per 45 minuti hanno fatto tremare tutto, comprese le mie gambe.

Erano qui a due passi, era l'attacco finale ad un campo militare. Non erano spari, erano di quei bombardamenti che non auguri a nessuno e se proprio avvengono è più che sufficiente vederli nei reportages alle televisione. Il sacrificio della nostra lontananza momentanea è stato già ripagato dal fatto che mia moglie, e soprattutto figlio, hanno potuto evitare di assistere a tutto questo. Non hanno visto tutte queste brutte cose. Quelli di giovedi e venerdi scorsi mi erano già sembrati dei combattimenti intensi, lunghi, con armi pesanti e ne immaginavo gli effetti su tutto cio' che i colpi andavano a cozzare.

Impossibilitato a muovermi, ho lasciato correre la fantasia legandola a quanto hosentito e traducendo il tutto in qualcosa di visibile. Quando il momento di andare a vedere verrà, beh, capirò quanto sono stato realista, temo! I combattimenti sono cessati il sabato e la domenica: regnava un silenzio assordante interrotto a tratti dalla vicina di casa che nel mortaio pestava chissà quale cereale, dal cinghuettio degli uccelli a cui non si fa più caso (in nessuna parte del mondo) e dal rumore degli elicotteri che non hanno mai smesso di fare il loro vai e vieni di controllo.

Il caldo è feroce, il sole a picco e dai rubinetti non esce neppure una goccia d'acqua. Per avere due baguettes di pane (e non di più) bisogna fare la fila chilometrica nel poco tempo concesso dal coprifuoco. L'accesso internet è fuori uso. Il quadretto non è idilliaco ma non ci sono combattimenti se non qualche scaramuccia qua e là. Lo sciaccallaggio di magazzini e uffici nella zona sud della città, che le televisioni internazionali mostrano a ripetizione, disonora l'uomo che lo fa e l'uomo che lo ordina. Questo « silenzio » si è protratto fino alle 17 ora locale –le 19 in Italia- di lunedi 4 aprile, quando le bocche di fuoco hanno cominciato a sputare tutto ciò che conteneva la loro pancia.

In 45 minuti ininterrotti sembrava che il mondo dovesse finire. I miei angeli custodi con l'elmetto azzurro delle Nazioni Unite, che nel giro di pochi istanti si sono equipaggiati di tutto punto, mi hanno preso e mi hanno portato in un salone considerato più sicuro. Nel cielo oscurato da nubi che annunciavano l'imminente arrivo della pioggia, i missili tracciano solchi tanto luminosi quanto incandescenti. I sibili, i boati, gli scoppi, le detonazioni, hanno fatto vibrare pavimento e cervello, finestre e gambe. In quel momento diventi l'uomo dei record più strani: del va e vieni senza interruzione nel poco spazio che ti è concesso; della preghiera inventata perché forse più efficace nella circostanza ; dei versacci che la tua pancia emette per dirti che hai una paura terribile ; nel guardare l'orologio ogni mezzo secondo sperando che sia passata mezz'ora ed essere arrivato alla sommità del tuo calvario, oggi, senza il finale già conosciuto. Poi tutto si calma, torna il silenzio. Anche perché, per un pò le parole non ti vengono : le colonne di fumo fanno pensare che gli obiettivi siano stati raggiunti. Domani arriverà il conto dei morti ; quelli dei bombardamenti del pomeriggio e quelli degli scontri a fuoco della notte che, rischiano di farcela passare ancora senza sonno.