Si è parlato di superficialità, di ingenuità, persino di leggerezza e voglia di cercare avventure in un paese lontano e un continente difficile come l’Africa. Sui social non si è placata la polemica sul rapimento di Silvia Costanza Romano, sequestrata il 20 novembre in Kenya, dove si lavorava come cooperante per l’Africa Milele Onlus. C’è chi ha persino scritto che la ragazza, partita dopo una laurea triennale in Mediazione culturale, “se l’è cercata”. Nel dibattito sono finite anche le parole del giornalista Massimo Gramellini, commentate (e criticate duramente) da migliaia di utenti sui social. Ma il caso di Silvia non è il primo di una giovane cooperante italiana che viene rapita: prima di lei era capitato anche a Greta Ramelli e Vanessa Marzullo, così come a Simona Pari e Simona Torretta, o ancora a Rossella Urru.
Ma che cosa significa partire per fare il cooperante? Cosa spinge a raggiungere terre lontane per portare avanti progetti di solidarietà? È un lavoro? E che differenza con il volontariato?
Silvia, dalla laurea all’Africa
Originaria di Milano, la 23enne rapita in Kenya ha studiato presso la Unimed CIELS del capoluogo lombardo, ha fatto istruttrice di ginnastica e, dopo la laurea triennale come mediatrice culturale raggiunta a febbraio, è partita per l’Africa. Era al suo secondo viaggio e ha scelto di essere cooperante per Africa Milele Onlus, con sede a Fano nelle Marche, occupandosi di progetti a favore di bambini in Kenya. Dopo il suo rapimento sui social si è scatenato un dibattito a tratti molto violento, che ha visto contrapposti coloro che ritengono la giovane una brava ragazza impegnata nel sociale e chi invece l’ha definita (nel migliore dei casi) incauta.
Lo scontro social
«I social hanno instaurato la dittatura dell’impulso, che porta a linciare prima di sapere e a sostituire la voglia di capire con quella di colpire. Si tratta di una minoranza esigua, ma non trascurabile, perché determinata a usare uno strumento alla moda per condizionare, storpiandola, la realtà. Persone che, in nome del Bene, arrivano ad augurarti di morire». Così risponde alle critiche Massimo Gramellini dopo il suo articolo mercoledì 22 novembre sul Corriere della Sera, cheiniziava così: «Ha ragione chi pensa, dice o scrive che la giovane cooperante milanese rapita in Kenya da una banda di somali avrebbe potuto soddisfare le sue smanie d’altruismo in qualche mensa nostrana della Caritas, invece di andare a rischiare la pelle in un villaggio sperduto nel cuore della foresta. Ed è vero che la sua scelta avventata rischia di costare ai contribuenti italiani un corposo riscatto».
Parole travisate, a detta dello stesso giornalista, costretto a tornare sull’argomento il giorno dopo. Tra coloro che lo hanno criticato anche Selvaggia Lucarelli: «Cosa sarebbe la smania di altruismo? Aiutare gli altri non è ossessione, non è ansia, non è fissazione. È una magnifica, non comune attitudine che evidentemente Silvia possiede. Ed è raro, a 23 anni, pensare agli altri anziché a se stessi, ai propri piccoli egoismi, al selfie, alla serata con gli amici, alla dimensione effimera che abbiamo attraversato in tanti e in cui tanti sguazzano pure per il resto della loro vita». Ma cosa spinge un giovane a intraprendere una strada come quella di Silvia?
Cooperante o volontario
«Va chiarito che quello del cooperante è un lavoro retribuito. È un lavoro pagato che viene svolto in un contesto difficile, spesato dai donatori che sostengono onlus e fondazioni, come la nostra» spiega Giampaolo Silvestri, segretario generale di Fondazione Avsi, nata a Cesena nel 1972 e impegnata con 169 progetti di cooperaizone allo sviluppo in 30 paesi nel mondo, soprattutto Africa e Medio Oriente. «Se il cooperante è una figura professionale vera e propria, il volontario invece presta il suo servizio senza compenso, ricevendo solo un rimborso per le spese e il viaggio. A differenziare le due figure, però, sono soprattutto le prospettive di lavoro. Quello intrapreso dal cooperante è un percorso professionale a tutti gli effetti, caratterizzato però da una forte componente ideale. Noi possiamo confermare che si tratta di un settore in forte sviluppo, perché ci sono molti giovani che sono incentivati a seguire questa strada, lo fanno con entusiasmo e a volte iniziano grazie al servizio civile» spiega Silvestri.
Servizio civile nel settore umanitario
Tra i ragazzi che partono per l’estero, come cooperanti e volontari, ci sono anche molti giovani che decidono di fare esperienza nell’ambito del servizio civile. «Noi ne abbiamo diversi in molti paesi in via di sviluppo: qui i ragazzi prestano la loro opera, esattamente come farebbero in Italia, ricevendo un compenso». A erogarlo è il Dipartimento della Gioventù e del Servizio Civile Nazionale, che provvede al rimborso, ad esempio, delle spese «del viaggio iniziale per il raggiungimento della sede del progetto (aereo, treno, pullman, traghetto purché risulti il mezzo più economico) e del viaggio a fine servizio dalla sede di svolgimento del progetto al proprio domicilio», come indicato dal Dipartimento stesso. Anche vitto e alloggio sono inclusi nei benefit per il volontario, oltre a “un compenso di 14,46 euro netti giornalieri, per un totale 433,80 euro netti mensili.
I vantaggi nello scegliere di mettersi a disposizione del Servizio Civile Nazionale sono molteplici, non solo per la collettività: il tempo dedicato è riconosciuto come credito formativo nel corso degli studi e nel campo della formazione professionale, è valutato nei concorsi pubblici e il periodo di servizio civile è riscattabile ai fini pensionistici. «Il loro impegno dura in questo caso un anno» continua Silvestri «Altri ragazzi, invece, si rivolgono a noi come volontari. In genere il loro impegno dipende dalla disponibilità di tempo, ma solitamente sconsigliamo periodi inferiori ai tre mesi, perché non si avrebbe il tempo di ambientarsi e conoscere le realtà con le quali si viene a contatto» spiega ancora il segretario generale di Fondazione Avsi.
Quanto si guadagna?
Se per i volontari che effettuano “stage” viene offerto un rimborso spese, per la durata di un’esperienza formativa e viene inserita nei curriculum come soft skill, ai cooperanti è richiesta una maggiore formazione: «Esattamente come per le normali offerte di lavoro, anche in questo settore esistono dei progetti e vengono cercatiprofili professionali adeguati con requisiti precisi, che vadano oltre la necessaria conoscenza di una lingua o più lingue straniere. Questo vale sia per realtà come la nostra, sia per progetti di enti come l’Unicef» dice Silvestri. Quanto si può guadagnare? «Per un primo ingresso la paga è intorno ai 1.000 euro al mese, ma dipende molto dal profilo del cooperante: in molti casi sono richieste responsabilità specifiche e importanti. Tra i cooperanti ci possono essere anche ingegneri, medici o operatori sociali e alcuni progetti prevedono investimenti da 3-4 milioni di euro, dunque occorre professionalità» spiega Silvestri.
L’Identikit del cooperante: giovane e donna
Il settore della cooperazione è sicuramente caratterizzato da un’età media piuttosto bassa: «Parliamo di circa 35 anni, dunque giovani adulti, anche se più grandi in genere rispetto ai volontari o a coloro che prestano servizio civile»dice Silvestri «Nella maggioranza dei casi di tratta di donne. È un settore, infatti, a prevalenza femminileanche per il tipo di mansioni che si è chiamati a volgere: le figure richieste sono per lo più legate all’ambito educativo, soprattutto per una onlus come la nostra, o al sociale. Ma esistono anche realtà differenti».