Da Barabba a Pietro, l'umile pescatore della Galilea cui l'incontro con Gesù ha cambiato la vita. L'attore Pietro Sarubbi, che ha deciso di legare il suo spettacolo alla campagna di AVSI, racconta il suo ritorno sul palco.
Pietro Sarubbi ha raggiunto il picco della sua popolarità con Mel Gibson, quando nel 2004 diventò famoso in tutto il mondo come l'assassino rilasciato dalla folla per sacrificare Gesù. Un'esperienza fondamentale nella vita e nella carriera di Sarubbi, che lo spinge a prendere strade inaspettate e a riavvicinarsi alla fede. Oggi, dopo tanti anni di assenza dai palcoscenici, torna a teatro con lo spettacolo “Il mio nome è Pietro”, scritto insieme a Giampiero Pizzol. Un testo “poderoso”, esaltato dalla mano di un regista “di spessore e dalla forte sensibilità cristiana”, che racconta in toni ironici se stesso tramite San Pietro e la sua umanità generosa e imperfetta.
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Il mondo nuovo nasce da iniziative di persone, Pietro Sarubbi racconta la sua a Fondazione AVSI e spiega perché ha deciso di mettere a disposizione la sua esperienza di “uomo nuovo” legando il suo nome e il suo spettacolo alla Campagna Tende 2013-2014. Un passaggio quasi naturale, quello di riconoscersi “nel gesto del volontario che si spende per qualcuno che non conosce”, ma giunto al termine di un percorso che dal cinema lo ha riportato a teatro.
Pietro Sarubbi, cosa l'ha spinta a tornare sul palcoscenico?
“Volevo fare da anni uno spettacolo teatrale, avevo abbandonato il teatro quando dopo anni di grandissimo teatro in Italia e all'estero mi ero sentito di colpo estraneo a questo mondo. Qualcosa non funzionava più tra me e il teatro, una decadenza dei testi e della qualità mi aveva fatto decidere di abbandonare tutto, anche perché rinunciando alle tournee avrei avuto più tempo da passare con la mia famiglia. Il richiamo, però, era sempre forte, così dopo tanti anni di assenza dal palcoscenico ho deciso di tornare. Volevo fare uno spettacolo che parlasse di Barabba, di questo ingombrante personaggio che così tanto aveva cambiato la mia vita. Così, interpello un bravo scrittore di teatro, Giampiero Pizzol, e cominciamo a lavorare assieme alla creazione dello spettacolo".
Un'idea che avete presto abbandonato per giungere allo spettacolo attuale.
"Durante la lavorazione, mi capitava spesso di discutere con Giampiero della figura di San Pietro, che tanto aveva significato per me, fino al punto di avermi fatto cambiare il mio nome d'arte dopo oltre 30 anni e riprendere il mio nome di battesimo Pietro. Così un giorno Pizzol mi dice 'Lasciamo perdere Barabba, tu non centri più nulla con lui, concentriamoci su San Pietro' ".
E così siete arrivati al testo di “Il mio nome è Pietro”…
"Un testo poderoso, quasi tutto Vangelo, non semplice da mettere in scena. Per questo è stato necessario l'intervento di un regista di spessore, ma che avesse anche una forte sensibilità cristiana: uno qualsiasi non avrebbe capito dove volevo arrivare. La scelta è ricaduta su Otello Cenci che, nonostante i suoi numerosi impegni, ha accettato volentieri la mia proposta e ci siamo messi subito a lavorare, tra un pesce arrosto e un bicchiere di Lambrusco. Ed è stata una fortuna, perché Otello è riuscito davvero a cogliere gli elementi fondamentali del testo".
Che ruolo ha avuto l'esperienza con Mel Gibson, in La Passione di Cristo, nel processo di scrittura?
"Certamente il mio interesse per San Pietro nasce proprio nei giorni di riprese con Mel Gibson, e dal suo rifiuto di lasciarmi interpretare proprio quel personaggio.
Adesso posso dire che aveva ragione lui. Quando ci siamo incontrati io avevo il cuore scuro e ferito come quello di Barabba e lui voleva la verità di quella mia rabbia per il suo personaggio, per il suo film. Era quello che chiedeva a tutti, la verità assoluta. Una verità umana al servizio di quei personaggi chiamati a raccontare la storia più potente dell'umanità.
Sono convinto che se ci incontrassimo di nuovo oggi, mi farebbe certamente fare San Pietro. Proprio come un novello San Pietro, che ha timore davanti alla possibilità di fare il suo primo miracolo, mi piacerebbe provare a mostrargli la bellezza di questa mia nuova vita, in qualche modo scaturita dall'esperienza vissuta assieme".
“Passare da attore ‘alla Bukowski' ad attore ‘alla don Bosco' non è semplicissimo”, ha dichiarato in passato. Qual è stato il motore del cambiamento?
"Si cambia lentamente, anche se all'improvviso. E te ne accorgi solo attraverso lo stupore di chi ti conosceva prima e ti osserva cambiato ora. Ogni cambiamento prevede un impegno, uno sforzo preciso, invece la conversione ti prende e ti porta via come la corrente di un fiume. E fai più fatica a resistere che a lasciarti andare".
Lei insegna recitazione anche ai giovani aspiranti attori. Qual è il messaggio che cerca di trasmettere loro?
"Insegno arte e recitazione, ma anche onestà intellettuale ed etica del lavoro. La fatica è grande, perché il mondo dell'arte soffre di una forte egemonia culturale e politica che si riflette sulle nuove generazioni, spesso disinformate e quindi più facilmente plagiate. Io però vado avanti come un trattore e non scendo a compromessi con nessuno.
Spesso utilizzo gli insegnamenti di Péguy per parlare direttamente al cuore dei giovani ed insegnar loro la bellezza di amare il proprio lavoro. Ma se solo mi azzardassi a parlare di sacerdoti o santi li perderei, scapperebbero vittime del pregiudizio, che come dico nel mio spettacolo, “è la morte dell'amore, è la morte dell'intelligenza”. Allora lavoro sull'umano e sulla qualità e solo quando, dopo un po' tempo, loro capiscono e mi chiedono le ragioni più profonde, posso dir loro qual è la fonte a cui mi disseto".
Cosa l'ha spinta a legare il suo spettacolo alla campagna Tende di AVSI?
"Ho legato il mio spettacolo alla campagna Tende di AVSI, perché nel gesto cristiano del volontario che si spende per qualcuno che non conosce ma che gli è indicato come fratello da Cristo c'è tutta la questione dell'essere apostoli, dell'essere Simone figlio di Giona che guardato da Cristo, si ritrova uomo nuovo, con un nome nuovo dove c'era dentro tutto".
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