Brasile. Il massacro di Manaus e le carceri «senza chiavi»

Data 10.01.2017
25 MLO APAC2013 DSC 0289 02

Brasile. Il massacro di Manaus e le carceri «senza chiavi» Nel carcere brasiliano, dove sono morte 56 persone per scontri tra detenuti di clan diversi, è tornata la calma, La polizia cerca ancora 144 evasi. La calma è tornata nel carcere del massacro, alla periferia di Manaus. La polizia, però, prosegue senza sosta la ricerca di 144 evasi dalla struttura durante le 17 ore di sangue. Finora, le autorità ne hanno ripresi una quarantina. All’appello, però, ne mancano ancora tanti. L’arcivescovo del capoluogo dell’Amazzonia, monsignor Sérgio Eduardo Castriani, ha espresso profondo dolore per l’accaduto. Scatenato dal conflitto tra le due principali organizzazioni di narcos. Sabato, il pastore celebrerà la Messa di suffragio per le vittime. Mentre l’ausiliare Jose Albuquerque Araújo, in un’intervista al Sir ha esortato la popolazione a operare scelte non violente.
È successo lontano da qui, dall’altra parte dell’Oceano, solo due giorni fa, ma la distanza non riduce la brutalità della notizia: 56 persone sono rimaste uccise in una sommossa generata da tensioni per la spartizione di potere tra detenuti di clan diversi, in un carcere brasiliano, il penitenziario Anísio Jobim, nell’area di Manaus. Tra le vittime, sei sono state decapitate, alcune bruciate. Oltre alle armi da fuoco, sono stati usati machete, bastoni, coltelli. Qualsiasi cosa pur di massacrare. Nel caos della situazione alcuni detenuti sono fuggiti. I social media ne riportano i selfie, dedicati ai poliziotti che li stanno cercando, a dispetto del sangue che si sono lasciati alle spalle. Il penitenziario dove è avvenuta la mattanza è uno dei più duri del Brasile, con un tasso di sovraffollamento di quasi il 200 per cento, percentuale diffusa in molte altre carceri in un Paese che conta la quarta popolazione carceraria del mondo, 600mila detenuti, dei quali quasi 250mila in attesa di giudizio. La vita disumana delle carceri costituisce oggi il problema numero uno in termini di difesa dei diritti umani che il grande Paese latinoamericano è chiamato ad affrontare. Eppure, per tentare la risalita, il Brasile non parte da zero. In questo contesto, tra detenuti condannati per reati gravi, che si mostrano capaci di uccidere con un colpo di machete un compagno di cella, sono in atto esperienze concrete che indicano che una via alternativa è possibile. Sono le Apac, le carceri senza guardie né armi, un’eccellenza che stanno registrando da anni dei risultati interessanti: la recidiva scende fino al 20 per cento, rispetto alla media brasiliana che sfiora l’80.
L’Apac è formalmente un’associazione della società civile senza scopo di lucro che ha come obiettivo l’umanizzazione della pena privativa della libertà, e si pone come alternativa al carcere. La metodologia utilizzata, nata 40 anni fa per opera di un volontario della pastorale carceraria a San Paolo, Ottoboni, oggi è riconosciuta dalla legge brasiliana e praticata dai tribunali di 17 Stati. Il suo metodo si fonda sul fatto che il condannato riconosce di aver commesso un errore e decide di cambiare vita, scontando la pena all’interno delle Apac. Queste sono strutturate con l’obiettivo della risocializzazione effettiva dei condannati: non ci sono né guardie né agenti penitenziari, i “recuperandi”, come vengono chiamati, hanno le chiavi della prigione. I nostri operatori che lavorano dentro queste carceri si domandano se veramente rischiano la vita entrando nelle Apac, dove i detenuti – che hanno commesso reati simili a quelli del carcere di Manaus – possono muoversi, partecipano ad attività di formazione al lavoro, o a laboratori diversi, e sono incaricati essi stessi di curare i luoghi in cui vivono. La risposta sta nei fatti, nella vita che si svolge nelle Apac.
Dal 2009 grazie anche ad alcuni finanziamenti dell’Unione Europea, questo modello è stato oggetto di una scommessa ulteriore, e si va replicando in diversi Stati del Brasile e anche fuori dai confini. Non per idealismo, neppure per utopia. Perché funziona, le persone che scontano qui la pena non sbranano la loro umanità, escono che sono ancora capaci di relazioni buone. E queste carceri convengono a tutti: il costo di costruzione di un posto/persona è un terzo del costo del carcere comune, e quello di mantenimento è dimezzato. Sul muro di un’Apac qualcuno ha inciso la frase: «L’uomo non è il suo errore». Questa la consapevolezza di detenuti e volontari che rende possibili luoghi simili. L’errore non è l’ultima parola, se si costruiscono luoghi nei quali la persona può riscoprire che la ripartenza è sempre possibile.

Manaus, dal massacro di Anísio Jobim alle carceri senza armi: le due facce dello stesso Brasile Di Jacopo Sabatiello L'alternativa percorribile. L’esperienza delle Associazioni di Protezione e Assistenza ai Condannati (APAC) - sostenute da AVSI - in alcune case di reclusione, senza la presenza di armi o di guardie, nelle quali ci si dedica al recupero e alla reintegrazione sociale dei condannati. L´efficacia è dimostrata dall'indice di recidiva: 20-30% nelle APAC, contro il 70-80% delle carceri convenzionali.
MANAUS - Cinquantasei morti squartati, mutiliati e decapitati: è questo l'orribile bilancio della ribellione avvenuta nel Complesso Penitenciário Anísio Jobim in Brasile. Le notizie e le immagini che circolano in rete nei social, hanno colpito il mondo intero. Secondo il Segretario per la Sicurezza Pubblica non si è trattato di una ribellione vera e propria, ma di un problema legato alla guerra tra gang per il controllo del traffico di droga del territorio di Manaus. In ogni caso, il carcere si trovava già in una situazione di precarietà ben oltre i limiti del rispetto dei diritti dei prigionieri. La struttura, che al momento della ribellione ospitava 1.828 detenuti, ne dovrebbe ospitare non più di 592, dunque un tasso di sovraffollamento di oltre il 300%.
Dietro le sbarre in Brasile, 650 mila persone. Per chi come AVSI da anni lavora in Brasile sul il tema della detenzione e del rispetto dei diritti umani dei condannati, eventi come quello di Manaus stupiscono meno. Molte organizzazioni internazionali e lo stesso Parlamento brasiliano riconoscono e denunciano che numerose prigioni brasiliane sono di fatto delle vere e proprie polveriere, che possono eplodere da un momento all'altro, luoghi sovraffollati, senza regole, e dove l'unica legge è quella del più forte. Il Brasile, con quasi 650.000 prigionieri rappresenta la 4° popolazione carceraria del mondo, con un tasso di sovraffollamento medio di circa il 163% . Nel 2016 il relatore speciale delle Nazioni Unite, Juan E. Mendez, ha presentato un rapporto nel quale denunciava pratiche di torture come un problema cronico e ricorrente nelle prigioni brasiliane caratterizzate da situazioni “crudeli, disumane e degradanti” a causa del sovraffollamento. Le ricorrenti violazioni delle regole minime per il trattamento dei prigionieri adottato dalle Nazioni Unite oltre che fomentare maggiori atti di violenza all´interno delle strutture penitenziarie, rendono più difficile la riabilitazione e la successiva reintegrazione sociale del condannato.
L'esperienza positiva della co-gestione dei condannati. In questo contesto, s'è inserita l’esperienza delle Associazioni di Protezione e Assistenza ai Condannati (APAC), realtà della società civile che gestiscono in Brasile carceri di piccole dimensioni, senza la presenza di armi o di guardie penitenziarie e che si dedicano al recupero e alla reintegrazione sociale dei condannati, durante il periodo della pena. L´efficacia delle APAC è del resto dimostrata dall´indice di recidiva: 20-30% nelle APAC, contro il 70-80% delle carceri convenzionali. La principale differenza tra APAC e il sistema carcerario brasiliano è che gli stessi detenuti sono corresponsabili del proprio recupero operando nella co-gestione delle carceri.
L'alternativa percorribile. Oggi in Brasile esistono circa 50 APAC che ospitano oltre 3.000 detenuti e, pur non avendo la presunzione di rappresentare la soluzione al sistema penitenziario tradizionale, mostrano tuttavia un´alternativa percorribile. Da circa 10 anni, AVSI - con l´aiuto dell´Unione Europea - collabora con questa esperienza brasiliana, appoggiando il consolidamento e l´espansione del metodo APAC che ha al centro una visione che valorizza la dignità dell´essere umano. Disciplina, lavoro, famiglia, educazione, spiritualità sono alcuni dei punti di metodo attraverso il quale si cerca di fare emergere il valore e la radice positiva di ogni uomo, anche di chi si è macchiato di delitti atroci.
Come cambiare persone così? La domanda che sorge spontanea, quando si entra in contatto con i protagonisti di questa vera e propria rivoluzione - e cioè spacciatori, stupratori, assassini, rapinatori, pedofili, gente che, come nel carcere di Manaus, hanno decapita altri esseri umani - è questa: come è possibile cambiare e indurre al bene persone come queste? La risposta è semplice: quando si ha modo di entrare in contatto con una delle associazioni APAC e si parla con qualcuno dei "recuperandi" (sono chiamati così, non carcerati) non viene da pensare a quello che hanno fatto. Si ha insomma l'impressione di essere a cospetto di persone dignitose che stanno scontando la pena consapevoli del proprio errore, ma allo stesso tempo sono coscienti del fatto di essere uomini. Può sembrare un paradosso, ma sembrano persone libere.
"Qui entra l'uomo, il delitto resta fuori". Nelle APAC si scommette tutto sulla libertà di persone private della libertà. Una scommessa esplicitata da un motto scritto all’ingresso di ogni APAC: “Qui entra l’uomo, il delitto resta fuori”. Nel percorso di recupero vengono coinvolte le famiglie aiutate dai volontari che sono l’anima del metodo APAC. Dare le chiavi delle celle ai detenuti poteva sembrare una follia assoluta, ma non si può negare che la cosa funzioni: in oltre 40 anni di esperienza non ci sono mai state rivolte e i tentativi di fuga si contano sulle dita di una mano. Qual è il deterrente? Tutti i recuperandi rimangono colpiti dal fatto che, entrando nell’APAC, non sono più identificati da un numero come nelle altre prigioni, ma
vengono chiamati per nome. Per la prima volta sono guardati in modo nuovo, come persone, con uno sguardo di misericordia. Come insegna Papa Francesco: "dall’amore non si può fuggire".